Cannes 67 – Jimmy’s Hall: recensione film

KEN LOACH UNISCE DANZA E POLITICA IN UNA FAVOLA COMUNISTA TUTTA DA BALLARE NELLA JIMMY’S HALL

Jimmy's HallGENERE: drammatico

DATA DI USCITA: n.d.

DURATA: 106’

VOTO: 4 su 5

Mettere a confronto, seppur in similitudini che riguardano il soggetto, Jimmy’s Hall con Footlose è decisamente dissacrante nei confronti di Ken Loach, Ken Loach il rosso, che dopo una serie di commedie e documentari torna a parlare di quell’Irlanda che già raccontò nel 2006 con Il vento che accarezza l’erba.

Anni ’30: la guerra civile è finita da tempo e il paese si divide in fazioni politiche e religiose e in questo scenario Loach porta sul grande schermo la vera storia di Jimmy Gralton unica persona costretta all’esilio dal suo paese senza alcun processo solo per fatto di essere un comunista e di aver ridato vita, in quel della contea di Leitrim a una Hall abbandonata rendendola un luogo precursore dell’odierno centro sociale, di libertà.

Reduce da un esilio volontario durato dieci anni negli Stati Uniti Gralton con il suo grammofono verde, incantatore di masse stanche, e a suon di jazz ridona con leggerezza ai contadini di quella landa desolata una coscienza, politica e umana, che spaventa Padre Sheridan e che da vita a battibecchi, spesso silenti e fatti di sguardi, ancora contemporanei e profondamente veri in nome di quella Parola di Dio che nella bocca dell’uomo di Chiesa diventa sentenza.

Si balla, in Jimmy’s Hall, e il ballo diventa sinonimo di consapevolezza e coscienza che sia quella di poter dire, fare e pensare lontano dalla morale cattolica o quella di poter amare come fanno Jimmy e Oonah in ricordo di una vecchia e rispolverata passione assopita dagli anni di lontananza di lui e dal matrimonio di lei. Una danza senza musica dove le note sono quelle dell’erotismo e della presenza ritrovata dopo una lunga assenza.

In Jimmy’s Hall c’è tutta la similitudine politica che Loach mette nei suoi film e per poco più di un’ora si fa pace con quell’utopica idea di comunismo che oggi non ha più senso ma che in questo lungometraggio diventa favola, ridiventa favola, almeno per po’.

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