LAST DAYS IN A LONELY PLACE, SOLOMON TORNA ALLA SUA INFANZIA CON UN CORTOMETRAGGIO SPERIMENTALE
La capacità dell’artista è stata quella di fondere l’arte cinematografica a quella videoludica, quella di tornare bambino ma allo stesso tempo rimanere adulto, concentrarsi su Grand Theft Auto San Andreas ma toccare qualcosa di diverso. Usando un prodotto di massa considerato semplicemente intrattenimento dai più, partendo da GTA quindi, Phil Solomon ci conduce attraverso un luogo -o meglio più luoghi- che il videogiocatore attento conosce bene o per lo meno ricorda. Se durante la vostra infanzia avete giocato al titolo di casa Rockstar probabilmente vi ricorderete delle atmosfere calde e della possibilità di svago che la città aveva da offrire.
Il regista in Last Days in a Lonely Place mette da parte gli elementi che hanno reso celebre la serie, non vi è la spettacolarizzazione della violenza né il consumismo o la personalizzazione del personaggio. L’opera targata Phil Solomon non ha nulla a che vedere con i caldi colori del gioco, e se la violenza è presente lo è in modo completamente diverso. Il corto è un susseguirsi di immagine cupe, terrorizzanti, instabili. Non ha una trama, una scena potrebbe svolgersi al di fuori di un cinema, mentre un’ombra angosciante fa esplodere una macchina, l’arrivo dei vigili del fuoco ristabilisce l’ordine ma realizzare quello che accade è impossibile.
Allo spettatore non resta che immergersi in questo tipo di prodotto. L’ingegno dell’artista sta nell’usare delle ombre come protagoniste indiscusse dell’opera, abbandonare quelle luci scintillanti onnipresenti nell’opera Rockstar e concentrarsi su un bianco e nero cupo, tenebroso, desolato, quasi crepuscolare. Ogni immagine è un tributo al titolo videoludico ed allo stesso tempo segna la fine di quest’ultimo. Se è vero che ogni frame è legato al passato del regista e ai videogiochi della serie, dunque ogni frame è catturato, impresso nella mente del nostro (quando girovagava per Los Santos senza sentire sulle spalle il peso del gioco e delle sue missioni); d’altro canto è anche vero che nel suo vagabondare fra le strade poligonali di San Andreas cercando e ricercando la poesia, l’oscurità, gli orrori, si distacca completamente dalla funzione prima del gioco stesso.
Last days in a lonely place, cortometraggio sperimentale, minimale, personale, indipendente, è attento in modo particolare all’immagine ed il risultato finale è simile ad un dipinto lugubre. Ogni fotogramma viene così manipolato, snaturato, non aspettatevi di vedere uno dei video introduttivi di Grand Theft Auto né uno di quelli che si sviluppano nel mezzo. Il regista Solomon non usa cineprese, è armato solo di buona volontà e delle registrazioni: attraverso un montaggio creativo, una trama non lineare, ed una colonna sonora che si completano l’una con l’altra. Alla fine della visione lo spettatore resta estraniato, destabilizzato.