KIT MONKMAN E MARCUS ROMER DIRIGONO IN TOTALE GREEN SCREEN IL TURBOLENTO THE KNIFE THAT KILLED ME
DURATA: 101′
VOTO: 2,5 su 5
L’adolescenza è senza ombra di dubbio uno dei periodi più difficile dell’esistenza di un essere umano. Lo è ancor di più se, per certi versi, si è fuori dal normale, con sogni grandi, sensibilità e predisposizione alla gentilezza in un ambiente che di gentile non ha nulla. Ecco che i cambiamenti, le novità e la difficoltà nel relazionarsi con gli altri fanno sprofondare giù, in balia di una realtà anacronisticamente spietata se messa in relazione con l’età dei ragazzi, cattivi nel midollo, irrimediabilmente ottusi, senza dubbio sprecati, resi forti dal gruppo ma perdenti e sconfitti nell’intimo. Si fa presto, dunque, a restarne vittima, segnati dall’epiteto del bullo che, forse, sarebbe meglio chiamare in altri modi. Ma una volta che sei dentro il nastro non può essere riavvolto, scappare sarebbe da vili e quindi non resta che andare avanti, dritti dritti nell’abisso.
Succede questo a Paul (Jack McMullen), un ragazzo della provincia inglese che, cambiata scuola, in seguito alla prematura scomparsa della madre, si ritrova emarginato dalla vita scolastica e preso di mira da Roth (Jamie Shelton). Paul, gentile e buono d’animo, si avvicina ad un gruppo di ragazzi, così detti Freaks, trovando amicizia e affetto ma, inconsapevolmente, resta invischiato in una battaglia tra clan dall’epilogo che gli cambierà, ancora una volta, la vita.
Kit Monkman e Marcus Romer dirigono, di conseguenza, il turbolento The Knife That Killed Me, girato in totale green screen che ammicca, neanche tanto velatamente, a Sin City, citandone inquadrature e voice over. La grafica dell’opera è infatti la medesima, con una scenografia cupa che rispecchia una narrazione desolata alterata, qua e la, da sprazzi di colore.
Forte e allo stesso concitato, il film, con continui flash-back e flash-forward, è una sorta di spaccato moderno dei pericoli nascosti tra i banchi di scuola, inseguendo un ragazzo sperduto in un mondo troppo grande per lui che, inevitabilmente, corre verso un atroce destino assurdamente costruito dalle irresponsabili gesta di chi cerca l’approvazione del male, restandone quasi affascinato e ammaliato.
In The Knife That Killed Me aleggia però una certa ridondanza stilistica che, per quanto ben fatta, allunga l’originalità di una trama linguisticamente corretta risultando, alla fine, artificiale e caricaturale, inciampando nelle forzature pur regalando, inaspettatamente, un congeniale colpo di scena finale.