LA COMMEDIA FRANCESE CAMPIONE DI INCASSI ARRIVA ANCHE IN ITALIA
USCITA IN SALA: 5 febbraio 2015
DURATA: 97 minuti
VOTO: 3 su 5
I coniugi Verneuil, Claude e Marie, sono genitori di quattro splendide ragazze: Isabelle, Odile, Ségolène e Laure. La prima va in sposa al musulmano Rachid, la seconda all’ebreo David, la terza al cinese Chao. Un duro colpo per la coppia, che ha sempre avuto il desiderio (mai nascosto) di vedere le proprie figlie sposate con un buon cattolico. Non resta che Laure, la più giovane: su di lei si concentrano le ambizioni dei genitori, su di lei resta aggrappata l’ultima speranza. E Laure non li delude: come futuro marito si è scelta infatti Charles, di religione cattolica.
La gioia però dura poco, giusto il tempo di scoprire che il ragazzo è nero e di origini africane. La situazione si complica quando i Verneuil devono conoscere la famiglia del futuro genero, se possibile ancora più ancorata alle tradizioni e più propensa ai pregiudizi rispetto a loro. Ma la preparazione del matrimonio non può fermarsi, sebbene tra imprevisti e colpi di scena il lieto fine sembri molto lontano.
Philippe De Chauveron firma la commedia francese Non sposate le mie figlie! (orribile traduzione in italiano di Qu’est-ce qu’on a fait au Bon Dieu?), campione di incassi in patria e in Germania. Siamo lontani dall’ironia leggiadra e toccante di Quasi amici, altro grande successo d’oltralpe, sebbene, in fondo, le tematiche siano molto simili. Ad essere sotto i riflettori è infatti il pregiudizio, la diffidenza provata a prescindere verso ciò che è diverso e distante da noi.
Quella dei coniugi Verneuil (interpretati da Christian Clavier e Chantal Lauby) è una diffidenza che, a tratti, assume il profilo vero e proprio dell’atteggiamento razzista, soprattutto da parte di Claude. L’uomo infatti, tra battute e frecciatine, non lesina commenti politicamente scorretti verso le culture alle quali appartengono i suoi generi, terminando poi l’affondo con una bella risata di scuse.
Non siamo di fronte a un film che vuole squarciare il velo di ipocrisia che avvolge i rapporti tra persone appartenenti a mondi lontani. Quello che compie Non sposate le mie figlie! è, semplicemente, la messa in luce di ciò che davvero si pensa dell’altro, di ciò che sta alla base della concezione che una larga fetta della popolazione ha di culture diverse, anche quando abbiamo a che fare (come in questo caso) con persone educate e istruite, esponenti dell’alta borghesia. Lo stereotipo, il luogo comune, viene presentato senza abbellimenti o edulcoranti e, forse proprio per questo, fa ridere. Ancor più quando cliché del genere vengono espressi da chi, come i Verneuil, si professa di mente aperta. Ma non è facile distruggere secoli e secoli di tradizioni, di abitudini culturali che ciclicamente ripetono loro stesse, in una conservazione perpetua che, soprattutto per una certa generazione, equivale al vivere bene. Non tutti sono capaci, purtroppo, di compiere quello scatto in avanti, uno scatto capace di far raggiungere una posizione dalla quale vedere che l’apertura all’altro non significa annientare la propria storia, ma semplicemente arricchirla.
In quest’ottica, ancora più divertente (sebbene eccessivamente caricaturale, forse anche per colpa del doppiaggio) è la figura del padre di Charles, André, un omone nero grande e grosso, geloso protettore delle proprie tradizioni e della propria cultura. André si presenta specularmente a Claude, che ricopre il medesimo ruolo con la differenza di vivere nella “bianca” Francia. Anche il capofamiglia africano si fa portavoce di una diffidenza atavica, di una natura scostante, stavolta però frutto di ferite subite dal suo popolo nel corso dei secoli. Proprio questa uguaglianza di intenti con Claude porterà i due a considerare da un’ottica diversa quello che è stato il loro atteggiamento, ridimensionando il proprio modo di pensare grazie (banalmente, o forse no) alla condivisione di gustosi momenti gastronomici.
Preso senza pretese, Non sposate le mie figlie! raggiunge il suo intento di far ridere ponendo lo spettatore di fronte allo specchio di una parte della società, sebbene giochi molto con figure quasi macchiettistiche e risolva con eccessiva semplificazione le tensioni createsi. Non si tratta comunque di un film che si poteva fare in qualsiasi Paese. Al giorno d’oggi, poco dopo gli orribili fatti accaduti a Parigi che hanno portato milioni di persone a scrivere #JeSuisCharlie, quest’opera sembra affermare, con ancora più convinzione, che c’è – e deve esserci – la possibilità di condividere con gioia lo stesso suolo, la stessa Patria, lo stesso inno, anche quando a cantarlo sono un arabo, un cinese e un ebreo. E non si tratta di una barzelletta.