LA REDAZIONE SI DIVIDE SUL NUOVO FILM DI P.T. ANDERSON
Sul romanzo postmoderno Inherent Vice di Thomas Pynchon il cineasta Paul Thomas Anderson ha basato il suo settimo lungometraggio omonimo che in Italia è arrivato col, letterale, titolo Vizio di Forma. Il film, come il romanzo, narra l’epopea di Doc Sportello (Joaquin Phoenix) che inizia nel momento in cui una vecchia fiamma dell’investigatore privato si presenta inaspettatamente alla sua porta raccontando la storia dell’ attuale compagno, il miliardario proprietario terriero del quale è innamorata, e delle trame di sua moglie e del suo ragazzo.
Siamo alla fine degli psichedelici anni ’60 e la paranoia è all’ordine del giorno e Doc sa che “amore” è un’altra di quelle parole in voga in quel momento storico, come “trip” o “groovy”, che vengono usate a sproposito – solo che questa di solito porta guai… La nostra redazione si è divisa dando vita a un pro e contro sull’ultima fatica del regista americano.
Vizio di forma rispetta la poetica del cineasta?
SANDRA: Certo che sì! Thomas Anderson divide sempre (basti pensare anche a Magnolia e The Master) i suoi lungometraggi in due parti. La prima è forte di una sceneggiatura serratissima in quei si susseguono fatti su fatti e la seconda è puro viaggio mentale dei protagonisti. Poesia di pensiero, e meno di azioni. È questa, tra le altre che comprende anche un perfetto uso della macchina da presa, la grandezza del regista che presenta attraverso una carrellata di fatti i suoi personaggi per poi farli danzare liberi con il loro io più profondo.
SIMONE: Dipende da che punto di vista, sulle intenzioni sicuramente, nella forma lascia molto a desiderare. Mescola tantissimi generi e cambia registro almeno una dozzina di volte, tornando sui suoi passi, accelerando, sterzando, inevitabilmente rallentando. C’è di tutto nel calderone, a tratti geniale, a tratti noioso, troppa carne al fuoco e ci si perde nell’epopea pulp psichedelica di Doc, il buon Joaquin nelle vesti di protagonista. Non è Paura e delirio a Las Vegas, non è Magnolia, una via di mezzo che sbanda anche quando attrae.
Cosa funziona e cosa no?
SM: Per quanto mi riguarda funziona tutto. Dalla scrittura (e lasciatemi dire che premiare con un Oscar per la Miglior Sceneggiatura non Originale The Imitation Game e non Inherent Vice è stata veramente una scelta assurda), alla regia forte di una fotografia granulosa che sporca il giusto la storia, sino ad arrivare agli attori. Anderson con questo film non ne ha sbagliata una di scelta. Non vi poteva essere maniera più adatta di trasporre un romanzo di Pynchon se non questo Vizio di Forma che il regista ha regalato al pubblico.
SB: Dal mio punto di vista c’è un evidente problema di ritmo, che fa a cazzotti con una scrittura confusa, adattamento riuscito in alcuni punti laddove si intravede il lampo di genio, fotografia e colori saturi, molto meno nei passaggi centrali che collegano l’universo di personaggi creati da Pynchon. Gli amanti del romanzo ci sguazzeranno, ma dovranno fare i conti con i tempi del cinema di Anderson, uscito un pò troppo fuori dal vasetto della psichedelia pop anni 70. Tutto non torna, non deve tornare per forza, un minimo di filo logico però sì…
Lo consiglieresti? E perché?
SM: Mi nutro di libri, da prima che aggiungessi alla tavola delle mie passioni anche il cinema. È per questo che i miei occhi sono sempre pieni di pregiudizi quando si tratta di giudicare una trasposizione dal libro al film ma in questo caso, già dai primi minuti, ho capito che Anderson ce l’aveva fatta a rendere opera d’arte cinematografica il terzo atto della cattiva trilogia di Pynchon. Non posso non consigliare questo film a chi, come me, ha amato L’incanto del lotto 49 e Vineland e, ovviamente, Vizio di forma. E a chi alla lettura preferisce guardare il mondo attraverso il filtro della settima arte, consiglio Inherent Vice perché se hanno voluto bene a Il Grande Lebowski non possono non voler bene anche a questo lungometraggio.
SB: Scordatevi alcuni suoi lavori, il genialoide regista californiano tenta il salto triplo, mette in scena uno spettacolo degno di Bunuel, adattandolo ai mezzi moderni riletti in chiave citazionista. Ma non tutte le ciambelle escono col buco, questa ha qualche foro di troppo. Attenzione, consigliarlo lo consiglierei, ma con necessaria seconda visione, altrimenti il rischio di perdersi nel labirinto mentale di una follia registica è molto alto. Follia positiva, intendiamoci, alla fine Anderson o lo ami o non lo sopporti affatto.
SANDRA MARTONE & SIMONE BRACCI
LA REDAZIONE SI DIVIDE SUL NUOVO FILM DI P.T. ANDERSON
Sul romanzo postmoderno Inherent Vice di Thomas Pynchon il cineasta Paul Thomas Anderson ha basato il suo settimo lungometraggio omonimo che in Italia è arrivato col, letterale, titolo Vizio di Forma. Il film, come il romanzo, narra l’epopea di Doc Sportello (Joaquin Phoenix) che inizia nel momento in cui una vecchia fiamma dell’investigatore privato si presenta inaspettatamente alla sua porta raccontando la storia dell’ attuale compagno, il miliardario proprietario terriero del quale è innamorata, e delle trame di sua moglie e del suo ragazzo.
Siamo alla fine degli psichedelici anni ’60 e la paranoia è all’ordine del giorno e Doc sa che “amore” è un’altra di quelle parole in voga in quel momento storico, come “trip” o “groovy”, che vengono usate a sproposito – solo che questa di solito porta guai… La nostra redazione si è divisa dando vita a un pro e contro sull’ultima fatica del regista americano.
Vizio di forma rispetta la poetica del cineasta?
SANDRA: Certo che sì! Thomas Anderson divide sempre (basti pensare anche a Magnolia e The Master) i suoi lungometraggi in due parti. La prima è forte di una sceneggiatura serratissima in quei si susseguono fatti su fatti e la seconda è puro viaggio mentale dei protagonisti. Poesia di pensiero, e meno di azioni. È questa, tra le altre che comprende anche un perfetto uso della macchina da presa, la grandezza del regista che presenta attraverso una carrellata di fatti i suoi personaggi per poi farli danzare liberi con il loro io più profondo.
SIMONE: Dipende da che punto di vista, sulle intenzioni sicuramente, nella forma lascia molto a desiderare. Mescola tantissimi generi e cambia registro almeno una dozzina di volte, tornando sui suoi passi, accelerando, sterzando, inevitabilmente rallentando. C’è di tutto nel calderone, a tratti geniale, a tratti noioso, troppa carne al fuoco e ci si perde nell’epopea pulp psichedelica di Doc, il buon Joaquin nelle vesti di protagonista. Non è Paura e delirio a Las Vegas, non è Magnolia, una via di mezzo che sbanda anche quando attrae.
Cosa funziona e cosa no?
SM: Per quanto mi riguarda funziona tutto. Dalla scrittura (e lasciatemi dire che premiare con un Oscar per la Miglior Sceneggiatura non Originale The Imitation Game e non Inherent Vice è stata veramente una scelta assurda), alla regia forte di una fotografia granulosa che sporca il giusto la storia, sino ad arrivare agli attori. Anderson con questo film non ne ha sbagliata una di scelta. Non vi poteva essere maniera più adatta di trasporre un romanzo di Pynchon se non questo Vizio di Forma che il regista ha regalato al pubblico.
SB: Dal mio punto di vista c’è un evidente problema di ritmo, che fa a cazzotti con una scrittura confusa, adattamento riuscito in alcuni punti laddove si intravede il lampo di genio, fotografia e colori saturi, molto meno nei passaggi centrali che collegano l’universo di personaggi creati da Pynchon. Gli amanti del romanzo ci sguazzeranno, ma dovranno fare i conti con i tempi del cinema di Anderson, uscito un pò troppo fuori dal vasetto della psichedelia pop anni 70. Tutto non torna, non deve tornare per forza, un minimo di filo logico però sì…
Lo consiglieresti? E perché?
SM: Mi nutro di libri, da prima che aggiungessi alla tavola delle mie passioni anche il cinema. È per questo che i miei occhi sono sempre pieni di pregiudizi quando si tratta di giudicare una trasposizione dal libro al film ma in questo caso, già dai primi minuti, ho capito che Anderson ce l’aveva fatta a rendere opera d’arte cinematografica il terzo atto della cattiva trilogia di Pynchon. Non posso non consigliare questo film a chi, come me, ha amato L’incanto del lotto 49 e Vineland e, ovviamente, Vizio di forma. E a chi alla lettura preferisce guardare il mondo attraverso il filtro della settima arte, consiglio Inherent Vice perché se hanno voluto bene a Il Grande Lebowski non possono non voler bene anche a questo lungometraggio.
SB: Scordatevi alcuni suoi lavori, il genialoide regista californiano tenta il salto triplo, mette in scena uno spettacolo degno di Bunuel, adattandolo ai mezzi moderni riletti in chiave citazionista. Ma non tutte le ciambelle escono col buco, questa ha qualche foro di troppo. Attenzione, consigliarlo lo consiglierei, ma con necessaria seconda visione, altrimenti il rischio di perdersi nel labirinto mentale di una follia registica è molto alto. Follia positiva, intendiamoci, alla fine Anderson o lo ami o non lo sopporti affatto.
SANDRA MARTONE & SIMONE BRACCI