Da Savage Grace al trionfo degli Oscar

EDDIE REDMAYNE, JULIANNE MOORE E L’AMORE PROFONDO TRA MADRE E FIGLIO

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La notte di domenica 22 febbraio erano entrambi bellissimi e raggianti quando, alla pronuncia dei loro nomi dal palco del Dolby Theatre di Los Angeles, sono stati colti da un misto di visibile commozione e irrefrenabile felicità. Per tutti e due, abbiamo assistito a una meritatissima standing ovation da parte del pubblico in sala. Dopo ben 5 candidature, la splendente Julianne Moore è stata finalmente incoronata miglior attrice protagonista per Still Alice, film in cui ha vestito i panni di Alice Howland, Professoressa di Linguistica della Columbia University colpita da Alzheimer: un traguardo annunciato e non più rinviabile, a conferma di ogni pronostico e a suggello di una carriera sfolgorante.

Stessa sorte è toccata al 33enne britannico Eddie Redmayne, in forza della sua brillante prova attoriale nel biopic La Teoria del Tutto (di James Marsh), che ha portato sullo schermo la vita dell’astrofisico britannico affetto da SLA, Stephen Hawking. Quest’anno l’Academy ha premiato due storie toccanti in cui i protagonisti sono stati sottratti violentemente l’una delle capacità mentali, l’altro della mobilità fisica, a causa di due patologie tanto diverse ma in un certo qual modo simili, quantomeno negli effetti che la malattia ha avuto su chi ha amato Alice e Stephen.

Ecco quindi un aneddoto che riguarda e accomuna ancor di più i nostri due premi Oscar: ben 8 anni fa, Julianne Moore ed Eddie Redmayne, dagli occhi chiari e con le lentiggini sul viso, hanno recitato fianco a fianco nel ruolo di madre e figlio. Questo accadeva in Savage Grace, il dramma dagli “echi da tragedia classica” tratto dal romanzo omonimo che racconta la vera storia di Barbara Daly, donna di umili origini e moglie del miliardario Brooks Baekeland. Lo sconcertante fatto di cronaca legato alla sua famiglia, risalente al 17 novembre del 1972, colpì molto l’opinione pubblica del tempo, sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti.

La trasposizione cinematografica di Savage Grace, diretta da Tom Kalin, si sviluppa in 6 atti che abbracciano gli anni dal 1946 al 1972, un arco temporale in cui la scintillante “bella vita” dei Baekeland, che ha coinciso con la loro atroce caduta, si è consumata progressivamente sullo sfondo di New York, Parigi, Cadaqués, Maiorca e Londra. I personaggi sono complessi, in particolare quelli di Barbara (Julianne Moore) e del figlio Tony, interpretato da Redmayne negli ultimi 4 atti. Lo script del film è basato sui momenti principali della storia della donna e sul suo rapporto “malato” col figlio. La conosciamo come la tipica “self-made woman” americana degli anni ’40, dall’istinto e dall’audacia di un giocatore d’azzardo, che oscilla dal fondersi bene con le regole dell’alta società all’esserne totalmente inadeguata. E’ narcisista, insicura e ossessionata dalle apparenze, e il suo bisogno di sentirsi amata la rende vulnerabile, tanto da sfinirla. La Moore è indimenticabile nel ruolo di Barbara: rende in modo istintivo la profondità del personaggio, il trionfo e il fallimento di una vita,  rivelandone le emozioni anche con un piccolo gesto.

Tony è dotato di una fragilità psicologica pericolosa, che sfocia in pura schizofrenia, alimentata negli anni dal rapporto sempre più morboso e simbiotico con la madre. Un amore possessivo potremmo definirlo, che arriverà a non avere più freni una volta scavalcato l’indissolubile legame di consanguineità madre-figlio, in una delle scene visivamente più forti del film. Il giovane, cresciuto dalla madre a sua immagine e somiglianza, è succube della gelosia della donna verso la quale, a sua volta, prova sentimenti contrastanti. La condizione di salute mentale vacillante, gli fa perdere totalmente l’equilibrio già precario, condannandolo alla passività, alla non-maturazione. Redmayne è perfetto nei panni del figlio ribelle e apparentemente innocente, e la sua candida recitazione ben si fonde con la falsa purezza di un individuo assai problematico. I due protagonisti sono due anime intrappolate in una danza rituale di dipendenza e reciproca violenza, di cui sono essi stessi artefici. Ma chi dei due, al di là dell’epilogo, ha maggiormente contribuito a plagiare mentalmente l’altro?

Di Savage Grace rimangono impresse due scene in particolare, che sono ben architettate dal punto di vista della fotografia, nella capacità tecnica di esprimere esattamente l’atmosfera di quello che accadeva in scena, amplificando  il crescendo della tensione. Nella prima, Julianne Moore è mollemente adagiata nella vasca piena d’acqua, che prega il figlio di medicarle le ferite: Nella seconda, Eddie Redmayne è comodamente rilassato e disinvolto, con una sigaretta tra le dita, siede accanto a una Barbara “ingessata”, su un divano assolutamente perfetto, nel salotto della loro casa londinese. Queste due scene entrambe agghiaccianti, e in cui è presente il colore rosso come segno premonitore, lasciano appena intravedere la punta dell’iceberg.

E allora, dopo l’ondata dei Premi Oscar che si è appena conclusa, se siete curiosi di sapere di più dell’incredibile storia vera di Barbara Daly e Tony Baekeland, affidatevi all’interpretazione di Julianne Moore ed Eddie Redmayne che ne hanno incarnato a regola d’arte la psicologia. Savage Grace è un buon film introspettivo in cui il sesso, l’omosessualità e il ménage à trois sono solo alcuni tra gli argomenti tabù che vengono toccati.

Per leggere l’articolo Sapore di Oscar per Julianne Moore, pubblicato per la rubrica Women’s Film, clicca quì

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