IL FILM PIU’ INTIMO DI MORETTI NON ROMPE NEANCHE UNO DEI SUOI “DUECENTO SCHEMI”
DURATA :106’
USCITA IN SALA: 16 Aprile 2015
VOTO: 3 SU 5
“D’Alema dì qualcosa! Qualunque cosa!” Diceva così un Nanni Moretti interprete di sé stesso, intento a seguire un dibattito televisivo tra D’Alema e Berlusconi nel film Aprile. Un’esortazione che esigeva dall’esponente politico della sua “minoranza” una doverosa risposta che desse dignità al suo partito e alla sinistra. E con lo stesso stato d’animo di legittima attesa ci si domandava cosa avrebbe detto Nanni Moretti con il suo ultimo atteso film: Mia Madre.
Ad alimentare la curiosità e l’attesa non è solo l’uscita dell’ultimo film di uno dei registi italiani tra i più peculiari, apprezzato soprattutto all’estero, ma anche il ritorno ad una tematica da lui già affrontata, quella del lutto. E se ne La Stanza del Figlio, vincitore a Cannes, il toccante ritratto veniva donato attraverso uno stile delicato e personale, in Mia Madre, essendo un’opera in gran parte autobiografica, il coinvolgimento emotivo del suo autore è maggiore ma in parte meno efficace.
Margherita (Margherita Buy), è una regista affermata. Sta lavorando al suo ultimo film, una pellicola d’impegno sociale, qualcosa di nettamente diverso dai suoi precedenti lavori. I giorni di produzione non sono semplici, per via delle mille insicurezze e vari contrasti ai quali la regista deve pensare. E mentre la figlia è in vacanza con il padre, Margherita, alla fine di ogni giornata sul set, si reca in ospedale, alternandosi con il fratello Giovanni (Nanni Moretti), per andare a trovare la madre Ada (una perfetta ed essenziale Giulia Lazzarini), insegnante di latino in pensione, in precarie condizioni di salute. A complicare le cose ci si mette anche l’arrivo di Barry Huggins (John Turturro), un eccentrico attore statunitense.
L’impressione che si ha nel vedere Mia Madre è che sia stato fatto un passo indietro. Si ha la sensazione che, per quanto sia grande la carica emotiva in questa elaborazione cinematografica del lutto, il film sia esteticamente difettoso e privo di uno stile concreto, per quanto ricercato. Come la ricerca di una poesia individuabile nella scelta della musica di grande livello come le composizioni di Arvo Pärt, l’immancabile Leonard Cohen e le delicate note indie rock del solista Jarvis Cocker. Si nota un’inconsistenza che si scontra con la concretezza della dolorosa anima del film, la perdita di un genitore.
Il personaggio di Margherita Buy vuole essere l‘incarnazione al femminile di Nanni Moretti e la sua attrice ci riesce nel modo giusto, senza però troppo differenziarsi dalle sue vecchie interpretazioni. Moretti invece si presenta con una delle sue prove attoriali più asciutte e forze più apprezzabili, perché in disparte osserva il dramma che lui stesso ha vissuto cinque anni prima, comprendendone il dolore e donandolo al pubblico senza farsi protagonista, ma rimanendo ben presente. Un perfetto esempio di come “l’attore debba stare accanto al suo personaggio”, come recita l’incomprensibile consiglio che la regista Margherita dà ai suoi attori sul set.
Uno stile che difetta nell’immagine ma non nella sceneggiatura, scritta assieme a Francesco Piccolo e Valia Santella, dove alcuni momenti di grande ilarità e leggerezza regalano respiro e toccano le corde più drammatiche grazie all’eccezionale bravura di Giulia Lazzarini, (Il Piccolo, Romanzo di una strage) interprete della Madre Ada. A lei va il merito di aver infuso alla pellicola la delicatezza, la dolcezza e una commovente parte integrante, grazie ad un’interpretazione che smuove la parte più sensibile dello spettatore e la fa venire a galla, conferendo al film quel giusto quid in più che fa di Mia Madre un film da vedere.
Mia Madre è l’ultimo film di Nanni Moretti, non uno dei suoi migliori, anzi forse il meno apprezzabile per tanti aspetti, ma che riesce ugualmente a fare breccia nel cuore dello spettatore, grazie ad un’interprete all’altezza del suo compito, Giulia Lazzarini, e all’amore che l’autore conferisce nel ritratto della madre, un sentimento che arriva al suo culmine nelle scene finali, dove si ha la netta sensazione che ad essere in scena sia l’uomo e non il personaggio, il figlio e non l’attore.