Wild: recensione film

VALLÉE FIRMA UNA STORIA DI RINASCITA MA HA PAURA DI OSARE

locandina wildGENERE: drammatico/biografico

DURATA: 115 minuti

USCITA IN SALA: 2 aprile 2015

VOTO: 2,5 su 5

Dopo aver perso la madre per un male incurabile, Cheryl Strayed decide di affrontare il Sentiero delle creste del Pacifico, un percorso escursionistico lungo più di 4 mila chilometri che attraversa gli Stati Uniti. Spinta da un desiderio di rivincita e dalla volontà di sconfiggere le brutte “abitudini” – un’inclinazione all’autodistruzione attraverso droghe e rapporti sessuali con sconosciuti che ha causato la fine del suo matrimonio – la giovane donna vivrà fino in fondo questo viaggio solitario, nel quale si metterà alla prova per più di due mesi. Durante il suo cammino, Cheryl farà degli incontri che l’aiuteranno a completare il suo percorso, alla fine del quale si sentirà pronta a ritornare sui suoi passi per ricominciare a vivere con uno spirito completamente rinnovato.

Dopo il successo ottenuto con Dallas Buyers Club, Jean-Marc Vallée torna alla regia per dirigere Wild. La pellicola, sceneggiata dello scrittore Nick Hornby, si basa sul libro di memorie Wild – Una storia selvaggia di avventura e rinascita, scritto dalla stessa protagonista, Cheryl Strayed.

Così come il precedente lavoro, anche l’ultima opera di Vallée affronta un tentativo di rinascita: Matthew McConaughey tentava di risollevarsi dal miserabile destino al quale l’Aids lo aveva condannato, Reese Witherspoon cerca invece il riscatto dai propri errori tramite un viaggio catartico immersa nella natura. Ma qualcosa, stavolta, deve aver non funzionato.

Forse il regista canadese ha un così gran desiderio di restare all’interno di certi canoni – che Hollywood ha dimostrato di apprezzare – che non deve essersela sentita di battere strade diverse dal solito sentiero, non arrivando però a risultati altrettanto apprezzabili.

Guardando questo suo Wild, è forte e spontaneo il paragone con atri titoli che hanno affrontato anch’essi il tema del viaggio in solitaria di un’anima persa alla ricerca di risposte, primo fra tutti Into the wild. Nel film di Sean Penn, però, lo sguardo critico e curioso di Christopher McCandless rendeva l’intera vicenda una cassa di risonanza per tematiche e concetti che trascendevano il singolo individuo, caricandosi così di una valenza collettiva. Lo stesso non è per Cheryl, l’ennesima interprete di un “viaggio fatto per ritrovare se stessi”, che vede l’esperienza solitaria fatta sulle creste del Pacifico come una valvola di sfogo alla rabbia e alla frustrazione accomunate negli anni. Anche le inquadrature si soffermano principalmente sulla protagonista, regalando allo spettatore poche immagini degli splendidi luoghi da essa attraversati.

Vallée attua una regia che porta avanti le tradizionali dinamiche hollywoodiane, dirottando lo spettatore verso i soliti e sicuri terreni della commozione. Anche i frequenti flashback, che interrompono a più riprese la linearità del viaggio di Cheryl, mirano a permeare l’intera opera dei problemi della protagonista, enfatizzando di fatto l’individualità della stessa e donando alla pellicola un livello ulteriore (e non necessario) di drammaticità.

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