Taxi Teheran: Recensione Film

JAFAR PANAHI GUIDA IL SUO RACCONTO CLANDESTINO TRA I PROBLEMI E LA FORZA OCCULTATA DELL’IRAN

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GENERE: Drammatico

DURATA: 82′

USCITA IN SALA: 27 Agosto 2015

VOTO: 4 su 5

Non nega un passaggio a nessuno, il tassista Orso d’Oro al Festival di Berlino, Jafar Panahi. Chiunque è il benvenuto nel suo taxi. Uomini, donne, bambini, più giovani e meno giovani. Senza fare distinzione riguardo all’opinione che hanno. Tutti parlano, tutti esprimono il loro credo, la loro urgenza, le loro passioni e i loro problemi. E così dialogano tra loro mentre noi, da una piccola videocamera posta sul cofano, osserviamo.

Il tradizionalismo strafottente e presuntuoso litiga con una moderata opinione di obiettività sul degrado cittadino. Sono caratteri messi a simbolo di opinioni contrastanti che si confrontano, mentre fanno il loro ingresso per primi nel Taxi Teheran e nella nostra stretta visuale. Il dialogo poco costruttivo dà il via ad una sequela di personaggi che portano con sè il peso, la curiosità e la battaglia sempre e solo inerenti alla società in cui vivono. La società e cultura Iraniana che con le sue restrizioni e il suo veto su tutto ciò che non rispetti le severe leggi del governo Islamico, dettate dalla legge coranica della Sharia, serrano le menti per evitare qualsiasi dissidio.

E così fa il suo ingresso un venditore abusivo di film pirata, senza il quale la cultura non arriverebbe ai suoi concittadini; una bambina che interroga lo zio sulle regole che fanno un  film “distribuibile”; e un avvocato dei diritti umani, che racconta quanto sia difficile difendere i diritti di coloro che ne hanno bisogno, quando è lo stesso sistema a insidiarti.

L’opera Taxi Teheran non stupisce però per i problemi che vengono raccontati, ma per la leggerezza e freschezza con le quali vengono narrati. Panahi racconta un Iran lontano da stereotipi etichettatori che annullano l’umanità di un popolo in difficoltà, e che colpisce e incanta per il suo ottimismo.  Ottimismo espresso negli occhi dello stesso Jafar Panahi, vittima in prima persona di un divieto che lo obbliga a non fare più film per almeno 20 anni e a non poter lasciare il paese.

Jafar Panahi gioca con la realtà mischiandola alla ben calibrata finzione, fatta strumento narrativo del mondo al di fuori di quelle quattro portiere. Il regista interpreta se stesso e utilizza la sua immagine e il suo taxi come fulcro d’incontro di estrazioni sociali e mentalità diverse tra loro. Egli indica il cinema e si rivolge a lui con il suo indice, che enorme appare nella sala cinematografica. E così si rivolge indirettamente allo spettatore, al quale dedica un lavoro cinematografico clandestino pieno d’amore, una lettera d’amore come Aronofrsky, presidente di giuria alla Berlinale, ha dichiarato.

Uscito vincitore dalla 65esima edizione del Festival di Berlino, è stata la nipote e interprete del film, Hana Saeidi, a ritirare l’ambito Orso d’Oro. Un premio simbolo di riconoscimento al coraggio di un amore clandestino. Quello per il cinema. Un amore che si è liberato delle catene di un’assurda censura e che ha colpito il cuore del pubblico, universalmente.

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