Room: recensione film

UN PARTICOLARE RAPPORTO MADRE-FIGLIO TRATTO DA UN FATTO DI CRONACA

Room locandinaGENERE: drammatico

DURATA: 118 minuti

USCITA IN SALA: 3 marzo 2016

VOTO: 3 su 5

Quando suo figlio Jack compie 5 anni, Joy decide che è il momento di dire basta: basta con le bugie raccontategli fino ad allora, basta con la solita routine delle loro giornate e basta con la stanza in cui vivono, anche se costituisce tutto il loro universo. Letteralmente. Sì, perché quello che il piccolo Jack non sa, e che la madre non ha mai avuto il coraggio di dirgli, è che fuori da quelle quattro mura c’è un mondo intero che li aspetta e che non sa che loro sono lì. Rapita sette anni prima e costretta a vivere rinchiusa in quella stanza, la ragazza ha dato alla luce il figlio del suo carceriere e lo ha accudito come la cosa più preziosa che potesse capitarle, facendo di tutto per far sì che il piccolo crescesse felice della ristretta realtà ovattata nella quale sono stati costretti a vivere. Ma il momento per tentare la fuga è arrivato e non si può più rimandare, anche se ciò che c’è fuori è un’incognita che fa paura e la voglia di affrontarla si affievolisce di giorno in giorno.

Dopo il successo ottenuto con Frank, Lenny Abrahamson porta sullo schermo la complessa vicenda di Room, tratta dal romanzo Stanza, letto, armadio e specchio di Emma Donoghue. Il libro è ispirato a quello che è noto come “caso Fritzl”, famoso fatto di cronaca di un padre austriaco che ha tenuto prigioniera in uno scantinato, per 24 anni, la figlia con la quale ha poi avuto sette bambini.

Abrahamson parte da questa storia vera per parlare di rapporti umani scegliendo di filtrarli attraverso lo sguardo inconsapevole e vergine del piccolo Jack (interpretato ottimamente dal giovanissimo Jacob Tremblay), che nulla conosce al di fuori degli abbracci e delle parole materne. Il forte legame con il genitore, l’unico esistente nel micro-universo del bambino, diviene vitale e necessario una volta varcata la porta della prigione: una seconda nascita per il piccolo, messo al mondo nuovamente e questa volta per davvero.

Se nella prima parte della pellicola, quella ambientata all’interno della stanza, il legame affettivo concentra naturalmente su di sé tutta la potenza del film, la capacità da parte del regista di approfondire le volute di questo sentimento diviene quasi ingombrante una volta che i suoi protagonisti ottengono la libertà. In Room, l’incontro con il mondo esterno (e le profonde conseguenze che esso crea nella mente del neofita Jack e della rediviva Joy) è solamente accennato, come se il film stesso avesse paura di confrontarsi con la complessità e la grandezza della realtà per rifugiarsi nella confortevole sicurezza di uno spazio limitato, sia esso uno stanza-prigione o un “particolare” rapporto madre-figlio.

A perdere, in questo caso, è la profondità dei personaggi, primo fra tutti quello di Joy, il cui percorso successivo alla liberazione (non) viene narrato tramite ellissi e silenzi. La scelta del regista è però chiara e coerente dal principio alla fine: sin dalla prima inquadratura con la voce over di Jack, è evidente che è il piccolo il fulcro della narrazione, il soggetto che guarda e il filtro attraverso cui ci arrivano impressioni ed emozioni. La sua scarsa capacità di interpretare fino in fondo i comportamenti e i pensieri umani, normale in ogni bambino, è in lui per forza di cose acuita, permeando la resa emotiva della pellicola.

Grazie però alla forza degli interpreti, alla fermezza delle scelte registiche e ai toni che non scadono mai nel patetico, Room riesce ugualmente a coinvolgere lo spettatore, traendo gran parte della propria energia anche dai temi forti che contraddistinguono la vicenda che va a raccontare.

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