SPIELBERG, L’EREDITÀ DEI GRANDI MAESTRI DEL PASSATO È TUA!
In questi giorni nelle sale italiane è uscito Il ponte delle spie, avvincente spy story, come sottolinea il titolo, ambientata durante la Guerra Fredda. Potremmo dissertare dell’ interessante sceneggiatura scritta, udite udite, dai fratelli Coen. Degli attori come al solito perfetti; da segnalare l’interpretazione del misconosciuto Mark Rylance nei panni della spia Rudolf Abel. Che ne parliamo a fare di Tom Hanks? L’unica star hollywoodiana sempre fuori forma, con una faccia da Muppet triste e il fascino di un tubero, ma….
Ma poi comincia il film e Tom Hanks diventa ogni volta un uomo diverso, dallo sguardo penetrante, capace di una profondità interpretativa che gli consente di farci scordare immediatamente il tubero ed ipnotizzarci totalmente seguendolo nei panni di un GI americano sulle spiagge della Normandia nel ‘44, del “bizzarro” Forrest Gump o del per sempre brandizzato Walt Disney. Però noi non volevamo parlare neanche di questo.
Il professionismo del cinema americano, lo sappiamo, è garanzia di prodotti fatti e rifiniti a modo, come si suol dire: inutile ripetersi sull’argomento ogni volta. No, noi volevamo soffermarci un attimo su una contraddizione buffa e, a nostro modo di vedere, consolatoria, dal momento che riguarda l’opera tutta di un genio della creatività come Steven Spielberg.
Spielberg ha sempre preso le distanze dal cinema epico, amava John Ford ma lo accusava di essere sempre troppo “in esterni”, di non badare alla credibilità delle situazioni o dei luoghi (in effetti Ford cambiava location sulle sceneggiature, ma finiva per girare sempre negli stessi posti, peraltro riconoscibilissimi fin dalle prime sequenze), entrò in querelle persino con Stanley Kubrick perché secondo lui nientemeno che il leggendario Jack Nicholson non aveva trasceso la “Verità filmica” andando sopra le righe nella sua interpretazione in Shining.
Insomma un fautore dell’iperrealismo cinematografico tout court. Come sorvolare sugli stupefacenti effetti sonori in Salvate il soldato Ryan, in cui si arriva a sparare su carcasse di animali per ottenere l’effetto di colpi d’arma da fuoco così realistici da sembrare realmente penetrati nei corpi dei combattenti?
E allora? Direte. E allora rispondiamo noi: perché invece il cinema di Spielberg ci inchioda e ci avvolge come quei vecchi grandi film, dal tempo-ritmo spesso più ponderato, dai colori che sembrano ricordi del passato e dalle figure umane che ne escono come provenissero sempre dalla notte del mito? Quello che ci pare buffo, affettuosamente e con gratitudine, in Spielberg è che in realtà lui, che ha sempre voluto staccarsi dall’aura di leggenda che un certo modo di fare cinema ci ha regalato, ne sia invece il depositario più geniale. Spielberg è un regista classico, che gli piaccia o no. I suoi film poggiano sempre sugli archetipi della famiglia, dell’amore coniugale, della rettitudine morale, dell’onore, dell’essere degni, insomma di essere persone.
Ci racconta sempre storie che ci toccano profondamente nell’animo perché parlano di noi e lo fa come un romanziere ottocentesco, con stile, classe, prendendosi tutto il tempo che gli serve: tanto di candele per lavorare tutta la notte a scrivere film sul suo tavolo di legno ne ha a sufficienza, basteranno per arrivare fino alle prime luci dell’alba.
Caro Steven, l’eredità dei grandi maestri del passato, così lontani dai racconti schizofrenici di oggi, è tua. Inutile che tenti di ribellarti. Sarebbe come se Melville cercasse di convincerci con tutte le sue forze che ha inteso scrivere un trattato di biologia marina, lavorando su Moby Dick.
Un mio caro amico, grande attore di teatro, dice sempre che gli esseri umani fanno di tutto per rovinare le cose fantastiche che sono capaci di creare, ma siccome sono maldestri c’è spesso la speranza che non ci riescano. Grazie per come sei anche se non vuoi forse esserlo Steven: e chissà come se la ride quel vecchio ubriacone irlandese di Ford, da lassù…