IÑÁRRITU DOV’È IL MITO DEL SELVAGGIO WEST IN REVENANT?
Confesso che ho una speciale predilezione per il cinema western. Da piccola mio padre mi portava, come contropartita, in cambio dei cartoni animati che doveva sorbirsi lui, a vedere i “filmoni con gli attoroni”. I filmoni con gli attoroni erano quasi sempre, Dio sia ringraziato, dei grandi western. Classici come nel caso di quelli di Ford, Hawks, Sturges o d’autore come quelli di Peckinpah, Penn, Pollack, Ritt. Avevo già la passione per le storie e i racconti e quei potenti vettori di sentimenti ed avventure poggiavano su tutti gli archetipi che, come un giorno avrei imparato, sorreggono, fin dal libro dei libri, la Bibbia, i grandi temi dell’esistenza degli esseri umani.
Figuratevi come si è potuta scatenare la mia memoria emotiva nell’apprendere che uno dei registi che più amo (un bell’uomo, tra l’altro, e mi ricorda vagamente mio marito!), cioè Alejandro González Iñárritu, stava realizzando un western!
Allora sono andata a vedermelo in lingua originale, come si deve fare per godersi veramente il cinema. C’era la fila fuori dalla sala: che bello! Tutti insieme al grande evento! Ma…
Ma piano piano che scorreva il film ho cominciato a provare un senso di disagio, mancava qualcosa: ma cosa? L’interpretazione degli attori è naturalmente di livello (anche se Leonardo Di Caprio ha interpretato ruoli più complessi a mio avviso), l’ambientazione naturalistica crudele e dominante (anche se il Canada selvaggio dell’ottocento immaginiamo fosse di una energia primordiale e di una potenza da togliere il fiato e qui lo intravediamo soltanto): e la sceneggiatura?
Revenant – Redivivo di Iñárritu è il remake di una pellicola degli anni settanta dal titolo Cane bianco, va col tuo Dio con Richard Harris e John Huston, la storia in sé è piuttosto scontata (un uomo viene aggredito da un orso durante una spedizione e abbandonato per morto dal suo socio/rivale: sopravvive e si vendica, amen) e quindi c’è un problema di fondo: la Bellezza dov’è?
Ecco da dove è nato il mio disagio. Se la storia portata in scena da Iñárritu è scontata dall’inizio, se l’ambientazione non viene poi così valorizzata, la Bellezza cruda e violenta del western dov’è? Perché un western non deve mai poggiare su altro che non siano gli archetipi ancestrali della vita: natura selvaggia, lotta mortale per la sopravvivenza, destino ineluttabile e violento, eroismo, coraggio, vendetta, … insomma, carne e sangue. Ma soprattutto magnificenza. Perchè questi archetipi implacabili denudano l’uomo e lo misurano senza pietà: in condizioni estreme adesso vediamo veramente chi sei!
E questa dimensione non può prescindere dal fascino, dalla bellezza leggendaria di tutto ciò che avvolge la lotta estrema dell’uomo che sopravvive in natura. Che sia il Pequod in lotta con l’oceano e il suo re Leviatano, la diligenza di Ringo che tenta di sfuggire agli Apache o il tenente di fanteria che deve salvare il soldato Ryan. E qui? Non c’è.
Il Canada sembra un luogo gelido e spoglio in cui l’uomo si dibatte condannato al peggio. Gli indiani sembrano degli uomini primitivi mascherati a festa, privi di qualunque fascino e confusi in mucchi marrone sporco, senza alcuna fierezza. I trappers tutti uguali, distinguibili a malapena dal colore degli occhi, con dei nemici francesi ancora più anonimi se non fosse per la l’uso di una lingua diversa. Non parliamo della tentazione di Iñárritu di inseguire le atmosfere rarefatte di Malick nel tentativo di narrare oniricamente il passato del cacciatore Di Caprio, che ha un figlio che dovrebbe intenerirci ed essere il centro emotivo del dramma e invece è così insignificante e privo di alcuna empatia con lo spettatore da non smuoverci neanche un sospiro.
E allora cosa ci resta per abbandonarci al mito del Grande Nord? Tom Hardy. Un cattivo che non è cattivo, è solo uno che vuole sopravvivere e si adegua alle dure leggi di un mondo spietato. Ha fascino, finalmente. È potente e oscuro, persino nella lingua che mastica e sputa con violenza e contiene un perverso potere degno del grizzly, del corvo imperiale, del lupo grigio e di tutti gli altri abitanti che popolano quelle foreste infestate da spiriti maligni.
Un po’ poco. Soprattutto se ripensiamo ad un altro grande film dello stesso filone, quel Geremiah Johnson o per dirla all’italiana Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, diretto da Sydney Pollack in cui tutto ci incatena avventurosamente alla stessa lotta contro la natura selvaggia, ma i cui figli sono forgiati e affinati dallo splendore e dalla luce interiore che illumina irresistibilmente coloro che attraversano il fuoco e il sangue e vi sopravvivono.
Iñárritu è un grande, grandissimo regista, ma dello spirito fantastico e leggendario del mito del west, che aleggia libero e selvaggio nei cuori di tutti gli amanti del western, ha colto ben poco. Ci ha confezionato una brulla rappresentazione documentaristica e iper realistica di un mondo che invece riposa nel sogno di un ritorno alla Natura Madre e che sopravvive, seppur spesso sepolto sotto vari strati di ignoranza e ottusità, in ogni essere umano.
Ridateci i nostri sentieri selvaggi!