MARIE HEURTIN, LE DIFFICOLTÀ DEI SORDOCIECHI DI ESSERE ACCETTATI
DURATA: 95 minuti
USCITA IN SALA: 3 marzo 2016
VOTO: 4 su 5
Parlare di sordocecità al cinema è difficile e pericoloso. Difficile perché si tratta di due realtà antitetiche: come si fa a raccontare con l’uso di immagini e suoni, un mondo senza immagini e suoni? Uno stato di diversità talmente estremo che rappresenta, per un normodotato, per certi versi ancora un mistero dell’esistere, e sono tante le domande che sorgono e che sono destinate a rimanere senza risposte esaustive. Com’è realmente esistere senza vedere né sentire? Quali e che tipo di immagini mentali del mondo si formano? E come può il linguaggio cinematografico tradurre questo, o semplicemente raccontarlo, in maniera credibile? Infine è pericoloso perché nel cinema un sordocieco può essere soltanto raccontato, vista la sua impossibilità di fare suo il mezzo filmico, ha un bisogno costante di un elemento che lo rappresenti, un elemento che non può tradurre fino in fondo o che può cadere nelle trappole del pietismo o del sensazionalismo.
A questo proposito viene in mente il documentario di Werner Herzog: Il paese del silenzio e dell’oscurità (1971), forse uno dei pochissimi tentativi di esplorare la condizione della sordocecità in un’ottica reale e leale, filmando i racconti e gli incontri dell’attivista tedesca sordocieca Fini Straubinger, e arrivando a filmare persone che nei casi più gravi neanche sanno cosa stia accadendo o che cosa sia un documentario. Un mondo che noi possiamo soltanto limitarci a osservare dall’esterno.
Osservare dall’esterno un’alterità, come quella sordocieca, e raccontarne l’esperienza attraverso una storia è quello che cerca di fare Jean-Pierre Améris in Marie Heurtin – Dal buio alla luce. Il film si basa sulla storia vera della quattordicenne Marie Heurtin, sordocieca dalla nascita vissuta alla fine dell’ottocento, della sua educatrice Suor Margherita e del duro percorso educativo verso una comunicazione che al resto del mondo sembra impossibile.
Marie (interpretata dall’attrice sorda non professionista Ariana Rivoire) viene portata dal padre, un umile artigiano, nell’istituto per ragazze sorde di Larnay affinché le suore possano prendersene cura, ma viene presto rifiutata vista la sua condizione e le credenze che a quell’epoca consideravano i sordociechi alla stregua di selvaggi incapaci di qualsiasi forma di apprendimento. È attraverso un contatto di mani, l’unica finestra sul mondo a loro disposizione, che una delle suore, Suor Margherita (Isabelle Carré), riceve come in una sorta di illuminazione la sensazione di avvicinarsi a Marie, di occuparsi di lei, andando contro l’opinione delle altre sorelle – comprese quelle sorde – e della madre superiora.
Il percorso educativo di Suor Margherita con Marie è ostinato, intuitivo, lento e pieno di grandi difficoltà. All’inizio molte sono le urla, i contatti fisici tesi, i rifiuti netti e lo spavento della ragazza. Nel filmare questo corpo adolescente sperduto e impaurito, violento nelle sue esternazioni, il regista ricorda François Truffaut in Il ragazzo selvaggio (1970), film dove il dottor Itard si dedicava al reinserimento del piccolo ‘ragazzo selvaggio’ trovato nei boschi della Francia nel 1700, anche questa una storia basata su fatti realmente accaduti. E in questo senso il personaggio di Marie rappresenta il “selvaggio” da ricondurre nella società.
Suor Margherita si avvicina empaticamente, cercando di guardare con altri occhi la ragazza, diventando quasi una visionaria, nei suoi sforzi disperati di far comunicare Marie, nonostante gli sguardi rassegnati delle altre sorelle. E sarà un coltellino, unico oggetto a cui la ragazza presta attenzione e che non abbandona mai, a squarciare il manto di incomunicabilità con il mondo. Dopo lunghi sforzi la ragazza impara a fare proprio il ‘segno’ di coltello e questo darà il via ad un forsennato bisogno di conoscere e imparare altri segni, toccando la mano dell’educatrice e riproducendoli, riuscendo in breve tempo a comunicare tramite la lingua dei segni. Suor Margherita trasforma Marie in una giovane donna, e lo fa attraverso un percorso che la coinvolge totalmente e che si fa speculare: è anche Marie che trasforma la sua educatrice e che, in un certo senso, le dona la vita e le insegna ad amare.
La lingua dei segni, che Marie usa per comunicare è una lingua toccata con le mani, così come tocca i volti, gli oggetti, gli alberi, le foglie. E il regista si sofferma attentamente su questo, con molta delicatezza e rispetto, quasi a voler preparare il terreno per quando la giovane arriverà a incontrare, nella sua crescita, concetti che non riesce più a toccare, come la morte o Dio (“Che cos’è Dio se non riesco a toccarlo?”). Marie Heurtin, seppure a volte con qualche semplificazione di troppo, riesce ad affrontare in maniera delicata i problemi legati alla sordocecità e a tentare di raccontarla attraverso la comune difficoltà di noi tutti a essere al mondo e ad essere accettati per quel che si è.
Marie Heurtin esce al cinema il 3 marzo accompagnato da una lodevole iniziativa di responsabilità sociale da parte di Mediterranea, il distributore italiano che, vista la particolarità della tematica toccata da Améris, si è affiancato a realtà istituzionali come la Lega del filo d’oro e il Cinedeaf – Festival Internazionale del Cinema Sordo dell’Istituto Statale per Sordi di Roma. Da una parte con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico tradizionale, e dall’altra con la precisa volontà di raggiungere anche il pubblico con disabilità sensoriale. Attraverso il supporto delle cooperative Eyes Made e Big Bang e dell’app MovieReading è stata infatti mostrata l’attenzione dovuta al pubblico sordo e cieco attraverso l’organizzazione di proiezioni sottotitolate, la disponibilità di disporre al cinema di audiodescrizione e sottotitoli sui propri dispositivi mobili e soprattutto di comunicare l’evento in modo accessibile, come dimostra la realizzazione di un trailer promozionale ad hoc per il pubblico sordo.
Cristiano Mancini