AL PACINO INCONTRA OSCAR WILDE IN UNA SUA PERSONALE TRASPOSIZIONE DEL DRAMMA DELL’AUTORE IRLANDESE
GENERE: drammatico
DURATA: 95 minuti
USCITA IN SALA: 12 maggio 2016
VOTO: 3,5 su 5
Un amore viscerale e profondo, colmo di ammirazione e devozione: è quello che lega Al Pacino al suo lavoro, la recitazione, e al teatro, la dimensione per eccellenza dove la sua arte può esprimersi appieno. Una relazione che ha avvolto, e che continua ad avvolgere, numerosi colleghi, registi e autori, nutrendosi degli impulsi da loro ricevuti ed evolvendosi nel tempo.
È primariamente un atto d’amore e di ossessione, dunque, quello alla base di Wilde Salomé, quarto lavoro alla regia di uno dei più grandi attori viventi, approdato nelle nostre sale dopo “solo” cinque anni dalla presentazione al Festival di Venezia. Pacino rende omaggio a quello che per lui è stato uno dei geni della letteratura mondiale: Oscar Wilde.
L’attore individua nel dramma Salomè (come già fatto per Riccardo III – Un uomo, un re) una fucina di temi e motivi idonei a una resa scenica efficace e d’impatto, capaci, allo stesso tempo, di racchiudere l’essenza della poetica dell’autore irlandese e, forse, della propria tensione artistica. Per raccontare la storia di Salomé (la giovane e sensuale figliastra del re Erode, da lei ossessionato, che pretende, per vendicarsi della sua femminilità respinta, la testa di Giovanni Battista su un piatto d’argento), Pacino attraversa tre livelli della narrazione visiva: quella documentaristica, quella teatrale e quella cinematografica.
Il regista, in un mirabile equilibrio di scatole cinesi, fa un documentario sul suo lavoro di messinscena dell’opera e, allo stesso tempo, mostra le immagini del film basato sul medesimo testo. Così come l’argomento è lo stesso, anche il cast artistico non muta, cimentandosi in questa duplice trasposizione: oltre ad Al Pacino, Jessica Chastain, Kevin Anderson e Roxanne Hart (tra gli altri) interpretano gli stessi ruoli a teatro e davanti alla macchina da presa. L’attenzione degli attori, e del regista soprattutto, è rivolta principalmente alle parole di Wilde, un approccio al testo che la fa da padrone e che costituisce il binario sul quale viene impostato il lavoro di Al Pacino.
Nell’avvicinarsi all’opera, nel renderla visivamente e nel tentare di comprenderla, Pacino segue passo passo gli eventi biografici dello scrittore, recandosi in Irlanda, Inghilterra e Francia e ripercorrendo con storici e appassionati le vicissitudini dell’autore. L’intento è quello di seguire il filo che lega in un solido rapporto di causa-effetto (a tratti forse asfissiante) il vissuto del creatore alla propria opera.
E così la “selvaggia” Salomé – la cui sensualità è straordinariamente sprigionata da una folle e ferina Chastain – fa delle fatali catene ancorate al suo fascino un’arma per colpire, rimanendo però vittima del suo stesso sortilegio. Attorno a questo personaggio, simbolo di un’ineluttabilità e motivo di un’ossessione dai quali, in fondo, non si vuole fuggire, Pacino costruisce un’opera omaggiante il genio di Wilde e, allo stesso tempo, fortemente auto-referenziale.
E per fortuna: una figura del suo calibro, in una commistione potente con la poetica di questo scrittore, regala allo spettatore infinite sfaccettature multidimensionali che ammaliano, mentre si esplicano, anche i più distaccati, dimostrando che, dopo tutti questi anni, Al Pacino ha ancora molto da raccontare e da donare, non solo al pubblico, ma all’Arte tutta.