QUANDO L’INDIPENDENTE NON È POI COSÌ “INDIE”
Ha cercato di dimenticare, ma del suo passato Bruno porta i segni sulla pelle e sotto pelle, nascosti tra le pieghe dell’anima e del corpo, come la malattia che lo consuma lentamente. Fino a quando Bruno non ha l’occasione di tornare nel luogo dove tutto è cominciato: una fornace ormai spenta divenuta rifugio di un uomo e della figlia. Nessuno dei due riconosce quell’intruso le cui intenzioni appaiono sempre più ambigue e sfuggenti. Per guarire Bruno deve trovare un colpevole, guardare in faccia l’origine del suo male. Cercare tracce, cancellarle, per tentare di fermare l’intruso che è in lui.
Già solo dalla sinossi ufficiale si può comprendere dove Senza lasciare traccia di Gianclaudio Cappai mira a infondere la sua massima ispirazione artistica. Piuttosto che una vera e solida trama, quindi, la storia di Bruno procede. fin dalla sua impostazione iniziale, sulle allegorie e sull’espressività interiore data da personaggi e ambiente scenico, a fronte di un racconto piuttosto nebuloso. Come la buona tradizione indipendente, nostrana quanto internazionale, vuole, il regista spinge così sul piano dell’autorialità, curando più la costruzione dell’immagine che quella propriamente narrativa.
Una qualità di messa in scena ricca e notevole, che rende il film decisamente meno “indie” di quanto ci si possa attendere, almeno per come siamo abituati, e che giustifica il ritardo di quest’articolo (visto che la pellicola ha già visto il passaggio al cinema, per quanto ovviamente ridotto, in data 14 Aprile). Il lavoro tecnico di Cappai merita infatti di essere sicuramente citato, all’interno di un panorama cinematografico che spesso trova nel “low-budget” una via di fuga troppo facile dalle responsabilità artistiche personale. Il merito cresce, poi, se si pensa che siamo di fronte a un vero esordio sul grande schermo per l’autore, che succede al cortometraggio Purchè lo senta sepolto (vincitore della categoria al Torino Film Festival e finalista ai Nastri d’Argento del 2007) e al mediometraggio So che c’è un uomo (presentato a Venezia nel 2009 e selezionato al Festival di Rotterdam).
Una professionalità che si può riscontrare anche nella scelta del cast, a partire dal suo protagonista Michele Riondino, avente una folta carriera teatrale e televisiva (Distretto di polizia), oltre che cinematografica comparendo in acclamati film come Il giovane favoloso, Fortapàsc o Il passato è una terra straniera. Anche la co-protagonista, probabilmente la più celebre tra gli interpreti insieme a Riondino, non è da meno: Valentina Cerci (Elena) vanta un curriculum addirittura internazionale, dal Jane Eyre di Cary Fukanaga al Miracolo di Sant’Anna di Spike Lee. Stesso discorso dicasi per attori come Elena Radonicich e Vitaliano Trevisan, a formare quindi un cast esperto che, va detto anche questo, non certo tutti i “colleghi” possono permettersi.
“Tutti i personaggi del film lottano per liberarsi da ciò che ha segnato per sempre la loro vita, per quanto abbiano cercato di dominarlo, di nasconderlo o di negarlo: l’anima di questa storia è un viaggio dentro la zona segreta che abita tutti noi, con cui spesso evitiamo di fare i conti, che preferiamo non guardare pur sapendo che esiste” dichiara lo stesso regista, parlando della sua opera. E chiaro fin da subito che temi tanto lirici e di un certo spessore, accompagnati ad una messa in scena, come anticipato, poco rispettosi dei parametri tradizionali di narrazione visiva, può allontanare una grande frangia di pubblico. Eppure la profondità dei sentimenti coinvolti, la riproduzione maestosa della scenografia agricola e i dettagli colmi di significato, possono comunque accomunare e colpire la sensibilità di qualsiasi spettatore. Impresa difficile, ma non per questo del tutto impossibile.