MEGLIO IL SEQUEL DEI REMAKE IN USCITA, IMPERDIBILE KEVIN SPACEY ANCORA UNA VOLTA PRESIDENTE USA
Nel weekend di uscita di ben due remake attesissimi (ma già altrettanto discussi) come quelli de I Magnifici 7 e Blair Witch, sono altri due i titoli provenienti sempre dagli USA a destare maggior entusiasmo. Pur avendo come filo conduttore il genere comico, Bridget Jones’s Baby e Elvis & Nixon, non potrebbero essere ovviamente più diversi. Chi è più nostalgico, non potrà farsi sfuggire il terzo episodio della piccola saga che consacrò allora il talento di Renèe Zellweger (almeno a livello popolare, visto che il riconoscimento massimo arrivò l’anno dopo, con l’Oscar per Chicago). Chi, invece, è più avvezzo a una risata più “dissacratoria”, o semplicemente stravede la bravura di Kevin Spacey (specie per il suo ormai iconico Frank Underwood di House of Cards), sicuramente preferirà il divertentissimo Elvis & Nixon. Per i più “cinefili”, invece, altri due sono i titoli che ci giungono dritti dritti da Venezia (come del resto, anche il film di Spacey): Spira Mirabilis e Frantz, pronti a soddisfare i palati più esigenti.
Bridget Jones torna sul grande schermo a 12 anni di distanza dal suo ultimo film. Dopo aver rotto con quello che pensava fosse l’uomo della sua vita, Mark Darcy (Colin Firth), Bridget Jones (Renée Zellweger) ha cambiato vita: è dimagrita, è una donna attraente, apprezzabile e in carriera. Ha un nuovo lavoro come produttrice di uno show televisivo, circondata da trentenni che, come lei, non hanno nessuna intenzione di mettere su famiglia. Un giorno, Bridget conosce l’affascinante Jack (Patrick Dempsey), un matematico americano, che ha tutto ciò che il suo Mark non aveva. Per lei la vita sembra essere arrivata a un punto di svolta. Tranne per il fatto che, qualche tempo dopo, arriva la sorpresa: Bridget scopre di essere incinta ed è sicura solo per il 50% di sapere chi sia il padre del bambino. Bridget Jones’s Baby è una pellicola più matura e più moderna rispetto alle precedenti, tanto da far crollare il mito che i sequel di un film siano tutti da buttare. Si ride, ci si commuove e si riflette insieme a un personaggio in cui un po’ tutti ci ritroviamo.
Due icone degli anni Settanta sono i protagonisti del film che porta i loro nomi, Elvis & Nixon. Al centro della storia il grande desiderio di “The King” di incontrare il presidente americano e ottenere il distintivo di agente segreto per dedicarsi da infiltrato alla lotta alla droga, ai ribelli, ai comunisti. Michael Shannon e Kevin Spacey sono assolutamente nella parte e in sintonia, esilaranti e spassosi, con delle spalle non da meno. Elvis & Nixon è puro intrattenimento, un film divertente e leggero, su uno egli incontri che ha fatto la storia americana, in un momento per questo Paese che ha visto la guerra del Vietman, le rivolte che ha comportato negli Usa, le tensioni razziali e la crescente paura dei conservatori verso comunisti, hippie, ribelli.
Un gruppo di nativi americani celebra un funerale e racconta della storica ribellione indiana in South Dakota durante cui la comunità fu massacrata dalle autorità statunitensi; uno scienziato giapponese specializzato nello studio delle meduse “immortali”, in grado di ringiovanire e sconfiggere la morte, e alle quali dedica anche una canzone; i creatori dello Hang, strumento musicale unico al mondo e creato solamente a mano con una tecnica raggiunta dopo anni di sperimentazioni sulla materia; un gruppo di operai a lavoro sulla sistemazione delle statue marmoree del Duomo di Milano. Il tutto intervallato dalla lettura di alcuni passi di Borges da parte di una famosa attrice francese, Marina Vlady, tratti dall’Aleph e dedicati al tema dell’immortalità. Queste le quattro storie protagoniste di Spira Mirabilis, ultimo lavoro documentario della coppia di documentaristi composta da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, presentato in concorso a Venezia 73. Spira Mirabilis rimane un lungometraggio d’élite, che si chiude unicamente a un pubblico ristretto e paziente, e che crea invece spaesamento nella maggior parte della platea, che si sente lontana dal film proprio come lo è da quel concetto di immortalità declamato.
Nella Germania del primo dopoguerra, un giovane francese di nome Adrien visita la tomba di un soldato tedesco, Frantz Hoffmeister. Al cimitero viene notato dalla fidanzata di Frantz, Anna, che avrebbe dovuto sposarlo a breve. Quando Adrien si palesa nello studio medico del dottor Hoffmeister è evidente che deve confessare qualcosa, ma viene cacciato perchè francese. Quando torna su invito di Anna, quello che tutti credono è che sia un amico conosciuto da Frantz durante i suoi studi a Parigi. Cominciano così i racconti delle loro uscite, delle visite al Louvre, delle suonate di violino insieme. Il ragazzo inizia anche ad essere benvoluto dalla famiglia, e c’è un evidente interesse tra lui e Anna, finché diventa però insopportabile il peso di un segreto che deve essere svelato al più presto. Francois Ozon porta in concorso a Venezia 73 Frantz, tratto dall’opera teatrale L’Homme que j’ai tué di Maurice Rostand già trasposta in passato da Ernst Lubitsch. Il film cresce giocando su contrasti e parallelismi, non ultimo quello con il nostro presente: come ha ricordato anche il regista, viene messo in scena un periodo storico che non può non ricordarci molto da vicino, perchè così come all’indomani della Grande Guerra dilagavano i nazionalismi e l’astio per lo straniero fomentato dalle estreme destre in ascesa, il fenomeno si sta ripetendo allo stesso modo anche oggi.