UN VIAGGIO FIANCO A FIANCO AI ROLLING STONES E I LORO FAN ATTRAVERSO L’AMERICA LATINA, FINO AL MERAVIGLIOSO STORICO EVENTO DEL CONCERTO A CUBA
GENERE: documentario
DURATA: 105 minuti
USCITA IN SALA: n.d.
VOTO: 4 su 5
Nonostante 50 anni di carriera alle spalle hanno ancora degli obiettivi da realizzare, e quello del 2016 è stato riuscire a realizzare un evento storico, ossia fare un concerto a L’Avana, Cuba. I Rolling Stones sono i protagonisti del documentario diretto da Paul Dugdale Rolling Stones Olé Olé Olé – A trip across Latin America, cioè il resoconto del tour che all’inizio di quest’anno li ha visti attraversare l’America Latina in dieci tappe.
In realtà questo film nasconde dietro i suoi fotogrammi molto, molto di più. Perché se da una parte vediamo i quattro insaziabili di musica Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood e Charlie Watts esibirsi sul palco dei concerti di questo tour, dall’altra si concedono all’occhio indiscreto della macchina da presa in momenti intimi e privati: e così entriamo nella camera d’hotel di Richards, vediamo dipingere Wood con un graffitista suo vecchio amico, oppure ascoltiamo il batterista Watts (il più lontano del gruppo dai riflettori dello star system perché “è solo una stronzata”) raccontare come ha iniziato a suonare. E naturalmente non mancano gli interventi del frontman Jagger che non risparmia aneddoti sul passato dei Rolling Stones né rifiuta di incontrare i fan.
Ma il particolare del film è che proprio il pubblico dei loro show diventa protagonista insieme al quartetto, tessendo la trama di quello che risulta essere un esperimento socio-antropologico più che riuscito. Perché forse nessuno di voi sa che in Argentina esiste la cultura rolinga, nata clandestinamente sotto la dittatura negli anni Sessanta e resistita fino ad oggi; un movimento che raccoglie alcuni dei fan più accaniti degli Stones, tramutando la musica del gruppo in un vero e proprio stile di vita, una religione. Questo è solo uno degli incontri con la cultura locale, il film è un continuo interscambio tra le star e le popolazioni brasiliane, argentine, peruviane, colombiane, messicane, rappresentate da determinati elementi che si raccontano nel proprio contesto politico-culturale e che raccontano del loro rapporto con la musica degli Stones; un viaggio non solo di lavoro ma anche anche di conoscenza.
A ciò si alternano scene da brividi dei loro concerti e aneddoti di come alcune delle loro canzoni sono nate: Sympathy for the devil fu canticchiata all’improvviso da Jagger sul portone di casa di un compagno che lo aveva invitato a cena, inizialmente simile a una ballata di Bob Dylan per poi tramutarsi in una salsa, mentre Honky Tonk Women fu improvvisata in uno sperduto ranch fuori San Paolo, in Brasile, da Jagger e Richards (cosa fai se sei sperduto nel nulla senza tv e con due chitarre?), che tra l’altro regalano un’esibizione in acustica del pezzo.
A fare da contrappunto a ricordi, canzoni, pensieri e incontri del loro tour, c’è l’organizzazione dell’evento culminante, ossia lo storico concerto finale a Cuba: mesi di preparazione e incertezze, tra tanti forse e ostacoli dai piani alti, come la visita di Obama organizzata lo stesso giorno della tappa cubana (“Quanti anni sono che un presidente americano non va a Cuba? 80? E deve farlo proprio il giorno del nostro concerto?” dirà Jagger a telefono con la manager).
Insomma, tanti problemi all’apparenza irrisolvibili ma alla fine aggirati, per il sogno di un gruppo di signorotti che la loro età non la dimostrano proprio, più energici dei ventenni e ancora tanto determinati da riuscire a entrare nella storia, non solo musicale ma anche politica di uno dei Paesi più chiusi che ci sia stato finora. E tra la voglia di cantare in sala e ballare sulla poltrona, arriva così anche il momento della commozione, perché questo enorme concerto (gratuito) ha dato ai giovani cubani una speranza per il futuro, e agli anziani il ricordo del primo concerto rock della loro vita, e la loro riconoscenza si legge sui volti solcati dalle lacrime e dal boato che ha accolto gli Stones sul palco. “Le cose stanno cambiando, solo qualche anno fa non era possibile qui ascoltare la nostra musica”.
E allora ha ancora più senso chiudere il documentario con It’s only Rock’n Roll (but I like it) e Satisfaction: la musica non conosce frontiere.