The birth of a nation: recensione

THE BIRTH OF A NATION NON AGGIUNGE NULLA AL GENERE, MA HA UNA POTENZA E UN CORAGGIO DIFFICILI DA TROVARE IN UN’OPERA PRIMA

birth-of-a-nation-posterGENERE: drammatico, storico

DURATA: 119 minuti

USCITA IN SALA: 14 dicembre 2016

VOTO: 3 su 5

Nat è uno schiavo che agli inizi del Novecento vive e lavora in una piantagione di cotone in Virginia insieme alla madre e alla nonna, mentre il padre è dovuto scappare per essersi ribellato ad un mercante di schiavi. La proprietaria della piantagione, avendo notato l’intelligenza del bambino, decide di insegnargli a leggere partendo dalla Bibbia. Proprio la scelta di questo testo lo segnerà per sempre anche da adulto, facendolo diventare un predicatore per la comunità degli schiavi della piantagione. Tutto sembra filare liscio, finché gli schiavisti bianchi non notano come gli schiavi obbediscano e seguano le sue parole, e decidono allora di assumerlo in diverse piantagioni per predicare l’obbedienza ai signori, provando così a sotterrare qualsiasi alito di protesta.

Dopo essere stato in parte affrontato in Free state of Jones, a pochi giorni di distanza, torna il tema della schiavitù dei neri d’America nelle sale italiane, sempre trattando una storia vera, ma stavolta dal punto di vista di un uomo di colore, anch’egli poco conosciuto da noi: Nat Turner.

The birth of a nation è un titolo potente, che non può non richiamare alla memoria l’omonimo lungometraggio di Griffith del 1915, ma con una storia e presa di posizione diverse. Perché stavolta non ci troviamo di fronte a un film che esalta la superiorità bianca e le azioni del Ku Klux Clan, ma ad un lavoro che mostra come non ci potesse essere la nascita della nazione americana se non con le prime ribellioni degli schiavi, i martiri e infine con l’integrazione stessa.

Quando si parla di film che affrontano la tematica della liberazione immancabilmente si pensa a scene di violenza, a rabbia, a ingiustizie. Ma The birth of a nation supera ogni confine possibile della nostra immaginazione, inscenando violenza e cattiveria in un’escalation continua. Questo non può far altro che far schierare lo spettatore dalla parte dei sottoposti in modo serrato e emotivamente straziante, ma fa anche apparire provocatoriamente e pericolosamente cattivi solo i bianchi e buoni solo i neri; un contrasto ancora oggi fin troppo delicato, anche alla luce dei continui episodi di razzismo e violenza che si stanno verificando in tutto il mondo. Un applauso alla foga, al coraggio e alla dedizione alla causa di Nate Parker, attore, sceneggiatore e regista alla sua opera prima dietro la macchina da presa, che riesce a portare sul grande schermo un lavoro incredibilmente efficace e diretto, ma forse questa esasperazione rischia di inasprire gli animi, riassumendo in modo troppo sbrigativo, esemplificativo e schematico qualcosa di invece inevitabilmente più complesso.

I temi trattati non si fermano alla schiavitù, al razzismo e alla conseguente violenza, ma sono molti di più, arrivando fino alla religione: Nat è un predicatore, utilizzato dai signori per convincere gli schiavi a lavorare e a sottostare ai loro comandi nel nome di Dio, ma quello che si carpisce da questi versi declamati a volte anche con una foga coinvolgente e toccante, è proprio la potenza della loro ambivalenza, della loro doppiezza d’interpretazione.

Se è vero che per molti versi The birth of a nation non aggiunge molto al genere e non riesce a raggiungere i livelli del precedente 12 anni schiavo, a cui probabilmente guarda, è anche vero che è incredibile pensare che questa sia un’opera prima, riuscita sia registicamente che attorialmente (nonostante il neanche troppo velato egocentrismo del Parker attore, che non manca quasi mai dalla scena).

The birth of a nation è, concludendo, un film con una ferocia che sfiora la sopportazione dello spettatore, un lungometraggio che per certi versi ha anche la colpa di non essere uscito prima del 2013, ma che merita di essere visto, perché un’opera prima così è quasi difficile da trovare.

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