LA FINE DELLA GRANDE GUERRA E LA NASCITA DEI TOTALITARISMI: L’INFANZIA DI UN CAPO È L’ESORDIO SORPRENDENTE DEL GIOVANE BRADY CORBET
GENERE: drammatico
DURATA: 113 minuti
USCITA IN SALA: 29 giugno 2017
VOTO: 4 su 5
Esce con colpevole ritardo e in un periodo morto come quello estivo L’infanzia di un capo (The childhood of a leader), opera prima dell’americano Brady Corbet che ha trionfato due anni fa alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, portandosi a casa ben due premi, quello per la miglior regia e il Leone del futuro – Premio Opera Prima De Laurentiis.
Giovanissimo, 30 anni non ancora compiuti, Corbet vanta già una vasta esperienza come attore nel cinema indipendente e d’autore, al servizio di gente come Haneke, Von Trier, Baumbach, Assayas, Hansen-Love e altri autori internazionali in rampa di lancio. Bagaglio culturale che lo ha evidentemente arricchito da permettergli di esordire con un film sorprendente.
Siamo nel 1918, ma il villaggio in cui è ambientata la vicenda potrebbe appartenere benissimo al Medioevo. Al posto della peste nera, però, vi è una prima guerra mondiale ormai al tramonto. Al centro della storia, una famiglia fortemente borghese costretta a trasferirsi in un paesino della Francia. Il capofamiglia è un consigliere americano che lavora al fianco del presidente Wilson, mentre sua moglie – francese – ha il compito di gestire l’enorme villa in cui dovranno vivere fino alla fine della guerra prima del viaggio di ritorno oltreoceano. La gestione che risulterà più complessa riguarderà però l’educazione e la crescita del piccolo Prescott, figlio ribelle che proprio non accetta il modus vivendi che gli viene imposto.
La famiglia di Corbet è lo specchio del mondo. I comportamenti privati degli individui sono in bilico tra stati di tensione, conflitti continui e conseguenti tentativi di pace. Nella grande casa-teatro de L’infanzia di un capo si muovono americani, francesi, tedeschi; diverse lingue e distinte classi sociali che raramente trovano un punto di incontro.
Il risultato di tutto ciò è un film austero, cupo e misterioso, dove nella prima mezz’ora non c’è uno scorcio di luce, un lume di speranza o una possibilità di salvezza. In una sorta di esilio forzato, lontani da una guerra che non li ha sfiorati, vicende pubbliche e private si mescolano e interscambiano di continuo.
La Grande Guerra là fuori si sta assopendo dopo aver distrutto l’Europa, ma sta germinando tensioni che sconvolgeranno ancor di più la geografia e la vita del continente e del mondo intero per tutto il ‘900. Allo stesso modo, nel privato di questa famiglia, crescono incomprensioni e maturano problemi insormontabili destinati ad annientare i singoli individui.
L’educazione di Prescott passa attraverso una ribellione costante verso il potere imposto come modello dai genitori e dalla Chiesa, quindi dalla società stessa. Mentre in soggiorno si decidono le sorti del mondo, il piccolo se ne sta rinchiuso a chiave in camera ad imparare lingue e storie in modo autoctono, in maniera silenziosa, in uno stato di pace fittizia e di rispetto degli equilibri, ma pronto ad esplodere da un momento all’altro. Come una sinfonia classica, il film è diviso in quattro atti – e comincia con una ouverture – scanditi da azioni d’ira che finiscono con l’interrompere definitivamente ogni tipo di rapporto.
La musica de L’infanzia di un capo, quando presente, è incalzante e dirompente. La fotografia ricercata gioca con le ombre (tante) e le luci (poche) della storia dell’arte. La sceneggiatura di Corbet, scritta con Mona Fastvold e Caroline Boulton, è ispirata all’omonimo racconto di Sartre e al romanzo del 1965 Il mago di John Fowles.
Sublime la direzione e l’interpretazione degli attori, dalla rivelazione Tom Sweet, a Bérénice Bejo, Liam Cunningham e Robert Pattinson, quest’ultimo protagonista di sole tre intensissime e rivelatorie sequenze. Nella storia vi sono echi di Haneke: critica alla borghesia, all’Europa del tempo, alla nascita di una “nazione” che porterà solo altro terrore. E’ la morte e la rinascia di un continente che sfocerà nel nazismo e nei totalitarismi dell’est.
Cristian Scardigno