Happy Winter: recensione

HAPPY WINTER, I BAGNANTI DI MONDELLO TRA STEREOTIPI E NOSTALGIA, INTIMAMENTE IMMORTALATI NEL LORO MICROCOSMO ESTIVO

HAPPY WINTER LOCGENERE: documentario

DURATA: 91 minuti

USCITA IN SALA: n.d.

VOTO: 3,5 su 5

Siamo nell’estate 2016, nel pieno di quegli Europei che a noi italiani hanno lasciato un grande amaro in bocca, eppure sembra di stare molto più in là nel tempo: sarà per l’ambiente, sarà per le canzoni, ma è come se Happy Winter, documentario di Giovanni Totaro, ci portasse indietro di qualche decennio.

Il regista ci mostra tanto, ma si focalizza su alcuni tipi in particolare, tra cui spiccano Tony Serio, un candidato consigliere col partito di Salvini che usa il lido per fare campagna elettorale (in costume) al suo programma anti Rom e anti immigrati, sempre pronto ad aiutare chi glielo chiede facendo una telefonata a chi di dovere; una coppia che per necessità sta pensando di dover abbandonare l’Italia per trovare lavoro e avere così la possibilità di avere un altro figlio; l’ambulante della spiaggia, Anthony, che non ha il cocco, ma qualsiasi bibita o snack si desideri, un italiano che non rilascia scontrino, gran lavoratore che fa chilometri sotto il sole per guadagnare il più possibile in vista dell’inverno, e che per i suoi figli sogna un futuro diverso; le amiche over 50 eppure tutte vestite da ragazzine, che prendono tutto il giorno il sole ungendosi la pelle e cantano le loro canzoni preferite, quelle simbolo dell’estate di ieri, più che di oggi. E infatti, a fare da filo conduttore, il comune senso di nostalgia per un passato in cui si viveva meglio, con meno preoccupazioni.

Totaro, al suo lungometraggio d’esordio presentato fuori concorso a Venezia 74, scruta i vacanzieri del lido di Mondello, tutte persone comuni prestatesi a un progetto nuovo, che ha reso diversa la loro estate in “capanna”. Il regista li spia non solo in spiaggia, ma anche attraverso le porte delle cabine, le fessure tra una e l’altra, o li mostra nel loro stesso interno, in questi spazi riveduti, arredati, personalizzati dopo lunghe progettazioni, luoghi di cui vantarsi e da mostrare ai vicini di ombrellone, vere e proprie case, seppur prive di confort e più economiche di un hotel o un appartamento: quello che vediamo è uno spaccato di vita, è l’analisi discreta di un microcosmo che si piazza a metà strada tra tradizione e nostalgia, meravigliosamente mostrato dall’alto nel pieno del suo rigore geometrico.

Happy Winter è il giusto compromesso tra documentario e fiction: i suoi interpreti sono persone comuni, bagnanti come tanti che si sono prestati alle riprese senza troppo esasperare né cambiare sé stessi. Perché loro (o meglio noi) sono sempre quelli che si preparano la pasta in spiaggia, che giocano a carte, che arrogantemente tirano il prezzo con gli ambulanti fino all’osso; sono quelli che non si vergognano delle loro pance o della cellulite, ma anzi sventolano fieramente sotto il naso di tutti le proprie imperfezioni. Tanti personaggi quanti sono gli stereotipi che simboleggiano o sostengono.

Ma ognuno di questi si rompe quando alla fine vengono fuori le loro debolezze, la loro umanità, da chi ha perso prematuramente un figlio, a chi litiga pensando a come la propria vita sarebbe stata diversa in un altro luogo, oppure chi si dimostra padre, o chi quella cabina non ha mai avuto bisogno di arredarla, perché gli basta solo un tetto e quattro mura per scambiarsi qualche bacio appartato.

Dopo la festa di ferragosto, il divertimento e qualche imprevisto, non resta che salutarsi con un “Buon inverno”, in attesa di ritrovarsi ancora una volta il prossimo anno. Ed ecco che il documentario di Totaro finisce come è iniziato: con un inquadratura dall’alto che allontana lo spettatore da questa realtà dopo una breve immersione, sulle note di A mano a mano di Rino Gaetano:

A mano a mano ti accorgi che il vento
Ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso
La bella stagione che sta per finire
Ti soffia sul cuore e ti ruba l’amore

A mano a mano si scioglie nel pianto
Quel dolce ricordo sbiadito dal tempo
Di quando vivevi con me in una stanza
Non c’erano soldi ma tanta speranza

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