Stronger: recensione

UNO DEI TITOLI PIÙ “FORTI” DELLA FESTA DI ROMA SCEGLIE LA STRADA DELLA “NORMALITÀ”

strongerGENERE: biografico, drammatico

DURATA: 116 minuti

VOTO: 3 su 5

Jeff, uomo di 27 anni della classe media di Boston, è alla maratona per tentare di conquistare la sua ex fidanzata Erin. Mentre l’attende alla linea di arrivo, si verifica l’esplosione in cui perde entrambe le gambe. Dopo aver riacquistato coscienza in ospedale, Jeff è in grado di aiutare le forze dell’ordine a identificare uno dei bombardieri, ma la sua battaglia è appena iniziata. Affronta mesi di riabilitazione fisica ed emotiva con il sostegno incessante di Erin e della sua famiglia. Intanto la sua storia colpisce e ispira l’intera comunità, rendendolo l’incarnazione vivente dello slogan, in commemorazione dell’attacco, Boston Strong.

Presentato nella selezione ufficiale della corrente Festa del cinema di Roma, Stronger è l’adattamento cinematografico del libro, omonimo, scritto dallo stesso Jeff Bauman in collaborazione con Bret Witter. Con la sceneggiatura firmata da John Pollono e la regia ad opera di David Gordon Green, il film tiene sicuramente fede al proprio titolo, nonché alla storia vera e personale del suo protagonista: 2 ore (ad un tratto, probabilmente eccessive) in cui la “forza” che un individuo deve mostrare e avere di fronte ad un evento tanto terribile viene approfondita, esaltata, sviscerata e messa in scena, a più livelli e per tutto il tempo. “Strength defines us” dice la logline promozionale, ed è quindi la “forza” a definire la pellicola, nel bene e nel male.

Non era affatto facile per Green portare sul grande schermo una storia così “forte” senza scadere nelle lacrime facili e nella banale retorica, specie in questo momento storico dove la paura del terrorismo ha ormai raggiunto una dimensione tanto epidemica. Il primo livello in cui il regista interviene, allora, è quello esteriore. Fin dal momento successivo al tragico incidente che colpisce Bauman, il filmaker statunitense dimostra di riuscire a gestire il mezzo cinematografico in modo da dosarne, con attenzione, ogni possibile deriva verso situazioni ed escamotage abusati da tanti altri colleghi predecessori. Green, infatti, sfoca l’obiettivo della macchina da presa dove altri avrebbero invece mostrato; mostra quando altri invece avrebbero tirato il freno. Perfino il tono segue simili dinamiche, aiutato dallo script di Pollono, che diverte quando meno te lo aspetti, come ha detto anche lo stesso Jake Gyllenhaal in conferenza stampa: “Mi è arrivato il copione. A pagina 4 mi sono ritrovato a ridere. Non me lo aspettavo” (una su tutte, la scena del risveglio in ospedale). Green d’altronde ha pur sempre diretto, in passato, brillanti commedie come Strafumati (o anche meno riuscito come Lo spaventapassere), per cui è ben avvezzo allo spirito tutto americano di saper ridere anche quando la situazione non lo richiederebbe affatto.

Anche il percorso dello stesso protagonista viaggia continuamente tra ciò che viene mostrato all’esterno e ciò che, in realtà, viene provato interiormente. Jake Gyllenhaal costruisce così su questi due binari la sua prova da Oscar (forse fin “troppo” perfetta per i palati dell’Academy, e ciò potrebbe penalizzarlo), composta, minimale, pronta poi ad esplodere in tutta la sua rabbia repressa quando la situazione lo richiede. Il rischio dell’interpretazione caricata e facile viene allora scampato anche in questo caso, come ha detto lo stesso Gyllenhaal “Mentre andavo al ristorante per incontrarlo (Bauman, ndr), pensavo: non posso farlo, non sono capace. E poi d’improvviso gli ho stretto la mano e lui era l’essere umano più simpatico e più carino del mondo, allora mi sono detto: ce la posso fare“.

Dove Gyllenhaal eccelle è proprio nel rappresentare il livello interiore del tormentato protagonista, nel nascondere i suoi demoni agli occhi di amici, parenti e di tutto il popolo americano, che lo ferma per strada urlandogli Boston Strong, attraverso sorrisi di circostanza e sfrenate bevute al pub. La novità della storia di Bauman la si riscontra tutta qui. Spesso simili vicende al cinema mirano a dipingere un ritratto del proprio protagonista edulcorato e indulgente, Jeff invece appare pigro, irresponsabile e immaturo quasi per tutto il film, ed è questa umanità, reale e vera, a rafforzare la sincera empatia dello spettatore. Lo spazio familiare la fa da padrone, in questo senso, dove entrano in gioco gli ottimi “non-protagonisti”, da un lato Miranda Richardson, che interpreta la madre di Jeff, alcolizzata, egoista e soprattutto freno per la crescita del figlio; dall’altro Tatiana Maslay, compagna di Jeff, in un ruolo continuamente al limite tra il senso di colpa, il sostegno e la sopportazione, che può quasi ricordare il recente caso della signora Hawking de La Teoria del tutto.

Non mi piace molto il termine “eroe”. – afferma Bauman – Ci sono tanti eroi della mia vita. Io mi appoggio a tante persone per aiutarmi, sono loro i veri eroi. E tutte le persone che mi hanno sostenuto. […] Sono una persona normale“. È proprio questa ricerca di raccontare una “normale” storia di una risalita, per quanto più complicata e impervia del solito, il pregio e allo stesso tempo il limite del film. Se infatti da un lato lo esalta nei momenti chiave, dall’altro appiattisce spesso la sua visione nel complesso. La “forza”, straordinaria, commovente ed esemplare, di Bauman, di Gyllenhaal nel renderla più vera possibile,  e del regista Gordon Green nel lottare contro una sua scontata messa in scena, è quello che il film rincorre, trova e infine vuole farsi bastare. E allora, basta e avanza anche per noi.

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"Tutti i bambini crescono, tranne uno".