LUCIO LAUGELLI RACCONTA LA GENESI DEL SUO LAVORO, UN ESPERIMENTO SOCIOLOGICO ON DEMAND SU INFINITY
Abbiamo avuto modo di parlare con Lucio Laugelli per la prima volta quasi due anni fa, in occasione del successo che stava riscontrando la sua web serie Su Marte non c’è il mare. Da allora, questo giovane regista originario di Alessandria non è di certo restato con le mani in mano. Lo ritroviamo infatti oggi alla regia di (a) social – Dieci giorni senza lo smartphone, documentario disponibile on demand su Infinity Tv. Co-prodotto da Mediaset, Noisiamofuturo e Stan Wood Studio, il nuovo lavoro di Lucio parte da un quesito interessante quanto di innegabile attualità: è possibile disintossicarsi dai social, vivere senza poter accedere al proprio smartphone o a qualsiasi altro device?
Per capirlo, il suo obiettivo ha seguito per dieci giorni quattro ragazzi normalmente iperconnessi – per lavoro, formazione o altro – alle prese con la privazione del loro oggetto preferito, lo smartphone appunto. Sullo sfondo, le montagne del Trentino Alto Adige, luogo perfetto per poter capire appieno il significato di “isolamento”, sociale prima ancora che social. Angelo Ferrillo, Elisabetta Gagliardi, Sylvia Martino e Lorenzo Tawakol sono le quattro “cavie” scelte per l’esperimento. Alla loro esperienza, vissuta davanti la macchina da presa, si sono aggiunte le voci eterogenee di bambini, anziani, esperti di digital detox, adulti e manager che raccontano allo spettatore il loro personale rapporto con il telefono e con il web. Ed è proprio Lucio a raccontarci la genesi del suo lavoro e delle motivazioni che l’hanno portato a intraprenderlo.
Lucio, com’è nata l’idea che è dietro a un lavoro come (a)-Social?
A marzo dell’anno scorso ho partecipato a un concorso di Mediaset che selezionava dei soggetti da co-produrre, vincendolo insieme ad altre due proposte. L’idea alla base del mio documentario mi frullava in testa da un po’, anche se ora è piuttosto abusata: mi trovavo a Gaeta per lavoro e una persona mi ha raccontato che stava per organizzare dei weekend di “digital detox”. L’ho trovato francamente assurdo, ma la cosa più assurda è che si tratta di un evento che risponde a un’esigenza reale. Da quella conversazione mi è balenata in mente quest’idea, che ho lasciato sedimentare per parecchio tempo, fino a quando ho letto del bando di Mediaset e ho deciso di provare a trasformarla in qualcosa di concreto. Ho scelto di coinvolgere persone che sono in pratica costrette tutti i giorni a comunicare tramite social. Così si è trattata di un’esperienza portata all’estremo, e la location in questo è stata molto d’aiuto: con il compromesso della montagna siamo riusciti a controllare davvero chi partecipava all’esperimento, garantendo un isolamento quasi totale.
Conoscevi già i protagonisti del tuo lavoro?
Due sì, ossia Angelo ed Elisabetta. Angelo è un fotografo con cui ho già lavorato, e mi sembrava avesse il profilo ideale perché perennemente attaccato al telefono. Elisabetta ha fatto The Voice e stabilisce un contatto praticamente quotidiano con i suoi fan tramite social. Silvia e Lorenzo non li conoscevo, però erano delle identità che per vari motivi mi “servivano”: Lorenzo perché è uno studente universitario, quindi è molto giovane e mi serviva quella fascia d’età; Silvia invece è una vera e propria influencer, quindi chi più di lei? Credo che non avere più “l’obbligo” di dover postare qualcosa ogni 3-4 ore l’abbia fatta sentire più leggera. Certo poi, quando alla fine delle riprese le abbiamo ridato il suo smartphone, si è isolata da tutti, però pazienza…
Visto questo finale, comune a tutti e quattro i partecipanti, si può quasi dire che l’esperimento sia “fallito”?
Sì, dai. Si tratta ormai di una schiavitù a cui sottostiamo in maniera quasi consapevole.
Quindi dal tuo lavoro, secondo te, emerge una visione pessimista?
Pessimista credo di no. Secondo me quello che emerge è che possiamo fare a meno della tecnologia social: la utilizziamo perché l’abbiamo a disposizione, ma secondo me potremmo riuscire a sopravvivere senza tranquillamente. Per alcuni magari all’inizio sarebbe dura, ma col tempo ci riuscirebbero anche loro.
Quando hai iniziato a girare ti eri però posto un obiettivo? C’era un messaggio da comunicare o qualcosa che volevi dimostrare?
Direi di no. Il mio scopo principale era quello di fotografare il periodo che stiamo vivendo e raccontare nel mio piccolo ciò che vedevo, in maniera più sincera possibile. Ho voluto raccogliere infatti anche le testimonianze di chi con l’esperimento non c’entra nulla: bambini, studenti, anziani… Volevo ritrarre la relazione che si è instaurata, nel 2017, tra l’uomo e questi device. Non essendoci una sceneggiatura non sapevo ovviamente come sarebbe andata. Sapevo solo che non volevo assolutamente creare un “reality show”, fatto di crisi isteriche e pianti.
Si può dire però che il tuo documentario abbia un po’ un taglio da reality?
Questo sì, anche perché, da bando, il mio lavoro doveva andare on demand su Infinity di Mediaset ed essere loro esclusiva per sei mesi, e questa destinazione sicuramente ha influito un po’ sulle scelte di lavorazione. Vediamo come andrà nei vari festival a cui lo stiamo proponendo.
E qual è invece il tuo personale rapporto con i social?
Io sono un vero drogato. Avevo fatto anche un lavoro fotografico prendendo spunto da questa mia ossessione, ritraendo una serie di persone che si ignoravano perché troppo assorbite dallo smartphone. Ammetto però di essere il primo di questi “tossici”.
Cosa puoi dirci invece della partecipazione di Ermal Meta e Mirkoeilcane?
Mirkoeilcane è stato disponibilissimo a collaborare con noi, e ha impreziosito la colonna sonora di Giacomo Franzoso con la sua canzone che si può ascoltare durante i titoli di coda. Ermal Meta anche ha partecipato al documentario, non in veste di musicista però: anche lui ha rilasciato la sua testimonianza in merito al rapporto che ha sui social e, visto che si tratta di un artista di fama nazionale, la sua è sicuramente una visione piuttosto particolare che si offre allo spettatore.
L’altra volta ti avevo chiesto a quali registi ti fossi ispirato per Su Marte non c’è il mare e mi hai fatto i nomi di Hitchcock e Polański. Stavolta invece?
Stavolta non ho da farti nessun nome nello specifico: posso dirti che ho guardato più documentari possibili e che ho cercato di fagocitare tutto quello che potevo a livello di insegnamenti.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto scrivendo delle pillole per una web serie, molto più piccola come budget e come struttura, che voglio fare per “divertirmi”, una sorta di esercizio. Diciamo che per me sarà come prendersi una pausa.