LUCI E OMBRE PER IL FILM SUI QUEEN, NONOSTANTE LA SUPER INTERPRETAZIONE DI RAMI MALEK COME FREDDIE MERCURY
GENERE: biopic musicale
DURATA: 135 minuti
USCITA IN SALA: 29 novembre 2018
Bohemian Rhapsody è un film potente, che invigorisce lo spirito, grazie soprattutto alla performance pressoché perfetta di Rami Malek e alla scelta di ricreare (quasi) per intero il concerto dei Queen a Live Aid, porzione della pellicola che occupa una buona ventina di minuti.
Dopo anni di lavorazione, tante discussioni, cambi di regista e registro, di protagonista e sceneggiatura, quello che rimane è il prodotto finale, al quale si possono trovare tante imperfezioni, ma che indiscutibilmente cattura lo spirito e il fascino della figura di Freddie Mercury.
Rami Malek ne ha fatta di strada dagli esordi nel telefilm per famiglie War at home, passando per il pluripremiato Mr Robot e conquistando con umiltà e perseveranza il suo posto a Hollywood. Vestire i panni di un’icona musicale come Freddie Mercury non è uno scherzo. Aldilà del trucco e delle movenze sul palco, la magia di Malek sta nel far dimenticare di star guardando un attore, dando invece l’illusione di assistere al vero Mercury.
Di grande interesse risultano i retroscena dell’industria musicale, soprattutto ai tempi in cui le case discografiche avevano tutto il potere e gli artisti dovevano lottare per far valere le proprie ragioni. Il problema del film è quello di sorvolare sugli aspetti più controversi della vita dell’uomo. Droghe, alcool e sesso vengono accennati, non si poteva escluderli completamente, ma mai esplicitamente mostrati.
Così vediamo l’eroina su un tavolino già tagliata, ma non vediamo mai sniffare; vediamo il cantante entrare in un club gay, ma mai una scena di sesso. È una scelta fatta a tavolino, soprattutto da parte dei restanti membri dei Queen, qui in veste di produttori e, di fatto, supervisori dell’intera operazione. Ma come biasimarli? È chiaro che si tende a voler ricordare le cose belle e a minimizzare quelle compromettenti, dando comunque un’idea d’insieme, suggerendo, lasciando che sia lo spettatore ad unire i puntini.
Semmai l’aspetto che dà più fastidio e l’aver giocato un po’ troppo con il succedersi degli eventi. Alcuni episodi fondamentali, come la diagnosi dell’AIDS o i progetti da solista di Mercury che misero a repentaglio l’unione della band, vengono spostati nel tempo a fini drammatici. Un’operazione del genere rischia di falsare la storia; a chi guarda distrattamente, allo spettatore casuale farà testo il film, questa risulterà la storia dei Queen indipendentemente da cosa successe veramente. È un rischio per qualsiasi film biografico, una cosa simile successe per il film sui Doors, ma in questo caso le libertà artistiche sembrano un po’ troppe.
I due aspetti, l’interpretazione di Malek e le inesattezze storiche, sono due facce di una stessa medaglia, quella di un film viscerale, che esalta, che incanta, anche grazie alle canzoni originali che sottolineano i passaggi più importanti, ma che fa a lotta con il raziocinio che vorrebbe più fedeltà verso i fatti. Alla fine conta come ci si sente all’uscita dalla sala, e il carisma della figura di Mercury batte tutto, dieci a zero.