IL REGISTA MICHELE DIOMÀ A CONFRONTO CON LA GIORNALISTA E SCRITTRICE FLORIANA BULFON
Giornalista d’inchiesta per Repubblica e l’Espresso, Floriana Bulfon collabora da anni con il format in onda su RAI TRE “I dieci comandamenti” condotto e diretto da Domenico Iannaccone, autrice del libro edito da Rizzoli “I Casamonica, la storia segreta. La violenta ascesa della famiglia criminale che ha invaso Roma”, Floriana ci racconta il cinema d’impegno civile, le fake news, i suoi film del cuore e tanto altro…
-Il cinema italiano in passato ha saputo raccontare la realtà rivelandosi in alcune circostanze anche profetico, come nel caso di “Todo Modo” diretto da Elio Petri, film nel quale veniva anticipata la fine rovinosa di Aldo Moro, oggi reputi la cinematografia italiana ancora in grado di mostrare il deep state del nostro paese?
-In Todo modo c’è la crisi e la fine di un sistema politico, Petri ne mette in luce fragilità e contraddizioni. Non è tanto la profezia o la denuncia, ma una riflessione sull’ irrazionalità dei meccanismi di potere. Alla fine in una danza macabra restano solo delle maschere e l’inganno per i cittadini. Penso sia fondamentale che il cinema si occupi di raccontare la realtà e comprenderne la complessità, senza però cadere nel moralismo, senza perdere lo spessore umano dei personaggi. Pier Paolo Pasolini ad esempio trova nel cinema un mezzo per esprimere con la poesia i temi che ritiene fondamentali. Le inchieste sono una partenza, ma occorre creare altre immagini, trasfigurare la realtà e renderla metaforica, senza nasconderne le contraddizioni. Non credo che in Italia non ci sia possibilità di questo, però ogni produzione riflette la sua epoca e la sua capacità di interrogarsi nel raccontare, comprese le libertà di espressione e quelle legate ai vincoli economici.
-Spesso il connubio creativo tra cinema e giornalismo d’inchiesta ha dato vita a pellicole di grande valore estetico e culturale, qual è il film di questa “sorta di genere” che più hai ammirato?
-Difficile sceglierne uno, però “Tutti gli uomini del Presidente” è stato un modello. Il cinema ha saputo ripercorrere in tempi brevi l’inchiesta del Washington Post sullo scandalo Watergate con due grandi interpreti come Dustin Hoffman (Carl Bernstein) e Robert Redford (Bob Woodward). E’ una narrazione essenziale e meticolosa, senza bisogno di drammi e di colpi di scena. La sostanza dell’inchiesta è così potente da far sì che lo spettatore si identifichi con l’indagine stessa.
-In Italia non sono pochi i giornalisti che subiscono minacce di ritorsioni quando decidono di indagare su alcuni lati oscuri che caratterizzano il nostro paese, tu sei tra questi, come vivi tale disagio?
-C’è un pessimo clima per la libertà di stampa con il disprezzo verso l’informazione non allineata, l’odio diffuso di mafie e gruppi della destra violenta e fascista che proseguono nella loro strategia di intimidazione dei cronisti. L’informazione è indicata come un bersaglio, minacciata da un numero abnorme di querele temerarie fatte per mettere un bavaglio con le carte bollate e la richiesta di risarcimenti milionari. Molti di noi purtroppo sono costretti a vivere sotto la protezione delle forze dell’ordine a causa di gravi minacce, colpevoli solo di aver fatto il proprio lavoro, e questa è una sconfitta per la democrazia. Siamo un paese in cui la corruzione dilaga e le mafie esercitano un controllo pesante, eppure sembra sempre che non sia un’emergenza. Da parte mia, mi considero una cronista che va avanti raccontando e mantenendo la tensione alla conoscenza. Convivo con la paura, certo, ma non mi lascio condizionare. Ci sono i pericoli fisici, le pressioni, ma significa che temono le inchieste, che dà fastidio se sveliamo gli inganni a cui vorrebbero abituarci e questo mi dà la forza di continuare. La consapevolezza che le inchieste servono.
-In questi giorni è stata creata dal governo italiano una task force per combattere le fake news sul Covid 19, cosa pensi in merito?
-Per combattere le fake news è fondamentale formare le persone ad esser consapevoli, a difendersi da chi manipola e disinforma fuori e dentro la rete. Sul punto della Commissione credo sia necessario capire bene cosa venga catalogato come fake news e disinformazione, se sia prevista una legge, se il controllo sia fatto da un algoritmo gestito da privati.
-Ti piacerebbe se un giorno da un tuo libro o anche da un tuo reportage per l’Espresso o Repubblica venisse tratto un film? Se sì, quale inchiesta reputi più congeniale per una trasposizione cinematografica?
-Un’inchiesta o un libro parlano attraverso la scrittura, traducono le immagini in parole. Adattarli in una fruizione cinematografica significa trasporli con delle diversità ma sono convinta che, soprattutto se la storia merita di essere raccontata, sia necessario declinarla attraverso più mezzi di comunicazione per arrivare a più persone. Dobbiamo usare tutti gli strumenti a disposizione per aver un impatto sul reale, salvare la complessità dell’inchiesta e riuscire a renderla più accessibile. Penso alla questione centrale dei diritti, dal lavoro alla libertà di espressione, dalla cittadinanza alla libertà di movimento. Alcune delle inchieste che ho realizzato potrebbero essere indicate e mi farebbe piacere, ma non vorrei mai una rappresentazione delle dinamiche del potere che porti ad un innamoramento, con i cattivi che diventano eroi. Penso sia necessario invece declinare le conseguenze di quegli abusi sulle nostre vite e rendere protagoniste le vittime.
-Quali sono i grandi giornalisti del passato ai quali ti ispiri? Quelli che ti hanno spinto a scegliere una professione tanto affascinante quanto ardua?
-Ce ne sono tanti. Giuseppe D’Avanzo che ho potuto conoscere. Ricordo la soggezione che ho provato. Porto sempre con me la sua definizione di inchiesta giornalistica (“è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica”). Elizabeth Cochran, per tutti Nellie Bly, la prima giornalista investigativa americana. E poi il premio Pulitzer Walter Robinson e l’esempio de il Globe nel documentare l’esistenza di una rete di preti pedofili della diocesi di Boston, perché grazie a quella storia, quel che era accaduto, non sarebbe più accaduto. La loro incessante ricerca è stato rappresentato magistralmente in Spotlight. Ma anche i tanti i cui nomi vengono letti di sfuggita, magari nemmeno ricordati e che per informare si scontrano con intimidazioni, arresti, la morte. Anche se oggi assistiamo troppo spesso ad un’informazione senza riscontri, senza fondamenti, fatta di spot, penso sempre con più forza che questo mestiere debba essere animato da umiltà, curiosità e rigore.
-I 5 film della tua vita.
Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard perché si fa forza sullo svelamento della finzione, ti costringe a svegliarti e perché mi ricorda una visione con tanto di cineforum con papà.
Quarto potere di Orson Welles perché lascia allo spettatore il compito di ricomporre la complessità e mi ha segnato nel modo di vedere le cose, in quella profondità di campo necessari anella vita e nella mia professione e ogni volta che lo rivedo mi interrogo sulla necessità di ampliare la prospettiva.
Nashville di Robert Altman perché è il ritratto di un Paese in cui la dimensione politica e quella privata si sovrappongono e perché Altman è un regista che ha saputo catturare il quotidiano divenire al di là di convenzioni e stereotipi.
L’avventura di Michelangelo Antonioni, il capitolo iniziale della “trilogia dell’incomunicabilità” è un’esperienza dei sensi. Le sfumature del paesaggio, i lunghi silenzi, la negazione del comprendersi. Una visione che ti disturba perché ti scava nell’anima.
Parasite di Joon-ho Bong perché è un film che mette in scena la supremazia e perché i film della vita si costruiscono nella vita ed è tra gli ultimi che mi hanno colpito e dei quali conservo un ricordo nella visione.
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