TRATTO DALL’OMONIMO ROMANZO DI KAZUO ISHIGURO, NON LASCIARMI RACCONTA UN’ERA CONTEMPORANEA DISTOPICA, SURREALE E DRAMMATICA
“Quello di cui non sono sicura è che le nostre vite siano tanto diverse da quelle delle persone che salviamo…tutti completiamo un ciclo…forse nessuno ha compreso veramente la propria vita, né sente di aver vissuto abbastanza”
Tratto dall’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro (autore, fra gli altri, dell’imperdibile Quel Che Resta Del Giorno). Non Lasciarmi racconta una storia sconvolgente e toccante in cui i destini di tre ragazzi si incrociano in una pellicola distopica dai tratti orwelliani che avvolge lo spettatore in una distorta atmosfera senza tempo dove anche i colori non sono mai veramente definiti. Il pubblico viene gettato in un buco nero confusionale in cui la cruda verità viene, come spesso accade in questo tipo di film, svelata solo in parte e solo ad alcuni.
Kathy (Carey Mulligan), Tommy (Andrew Garfield) e Ruth (Keira Knightly) sono tre ragazzi di cui facciamo una conoscenza apparentemente “normale”. Giovani ragazzi che vanno al college, conducono un’esistenza così come ce la immaginiamo, una quotidianità normale, laddove normale assume troppo spesso una connotazione negativa per la nostra società. Quasi a voler dire mediocre, quasi a sbatterci in faccia ancora e ancora quanto poco speciali siamo. Ecco, l’impressione che abbiamo di questi ragazzi e’ di un normale gruppo di adolescenti che vanno a scuola (impariamo ad apprezzare questa normalità).
Romanek però, ci presenta magistralmente la prima assonanza immaginativa: in questo ambiente a colpo d’occhio “perfetto” ci rendiamo conto delle discrepanze che ne fanno già cigolare la struttura. Braccialetti elettronici per entrare a scuola, dialoghi preparati alla Truman Show, tutto troppo irreale per essere vero. Quel che colpisce sin dall’inizio e’ un sentimento di malinconia. Il che e’ molto particolare, perché abbiamo appena incontrato i personaggi; viene da chiedersi subito di cosa sentiamo la mancanza? Tra lezioni di arte, sport e amicizie, i tre ragazzi sembrano condurre un’esistenza simile a quella di tanti loro coetanei, addirittura a quella che possiamo avere condotto noi.
Ma ci si accorge molto presto di come questo sia sbagliato. Il destino di questi ragazzi, il loro futuro è già scritto e non modificabile, come quello di chiunque altro in realtà. E forse e’ questo tipo di paradosso ad appesantire di un senso di angoscia l’intera pellicola. La realtà nell’irrealtà immaginaria e distorta di un mondo volutamente distopico.
I tre protagonisti infatti (come tutti coloro che crescono all’interno di questa scuola), sono dei cloni creati per evolvere e crescere fino a quando i loro organi non saranno abbastanza maturi per poterli esportare e trapiantare nei corpi di altri esseri umani. “L’orrore. L’orrore”. Per citare con una certa coerenza quel gran capolavoro di Coppola, Apocalypse Now.
Una volta diventati maggiorenni infatti, i tre ragazzi cominciano il proprio percorso di consapevolezza rispetto a quello che spetta loro e tutti gli altri automi-umani da cui sono circondati. I tre adolescenti sanno a cosa vanno incontro ma restano uniti, dimostrandosi molto più’ umani di quello che inizialmente si vorrebbe far credere. Pur non essendo mai davvero nati, pur esistendo senza essere venuti al mondo, essi sviluppano un lato umano che nulla, nemmeno la più peggiore delle visioni futuristiche può togliere all’uomo: l’amore. È sempre interessante notare come nonostante la volontà di rappresentare il male in tutte le sue forme, nessuno ci riesca davvero mai fino in fondo; nel senso che resta sempre lo spazio di speranza, di umanità, quello che probabilmente ci salva da noi stessi, anche nell’individualità della vita di tutti i giorni.
Mentre Ruth e Tommy vanno incontro al proprio destino di donatori, Kathy assiste i giovani espiantati ad accettare la propria condizione. C’e’ quindi un ulteriore tema molto importante: l’accettazione. La capacità di chiedere aiuto quando ci si sente (metaforicamente) privati di qualcosa di fondamentale. Permettere a qualcuno di aiutarci ad accettare quello che non possiamo cambiare, ma allo stesso tempo non arrenderci semplicemente a quello che è.
La palese metafora di tre ragazzi che rappresentano noi tutti, un senso di inemendabile ingiustizia universale che in realtà ci porta a prendere coscienza di una condizione che possiamo e dobbiamo prima accettare, per poter trasformare, evolvere, cambiare. La protagonista è ancora una volta una fantascienza spietata che veste i panni di una nobile signora intelligente e sofisticata che gioca, crea, distorce, spezza e ride. Ride della vita e della sua normalità.
Lo stile iperrealistico di Romanek accentua i tratti di un retrò senza età, naufraghi in un liquido amniotico che immobilizza spazio e tempo invece di nutrirli. Gli attori si aggirano come dei fantasmi, il che rende particolarmente delicata la questione di una buona recitazione. L’effetto di straniamento non permette di entrare in empatia con loro o di sentire per loro, ma allo stesso tempo la sensazione di non-appartenenza, di un futuro non modificabile pervade anche un po’ tutti noi.
Anime tormentate senza personalità, svuotate, o forse mai riempite di speranza o di passione, si aggirano aspettando la fine. Ci sono brevi, impossibili attimi di vita, fuggenti istanti di felicità, prima di restare nuovamente incatenati ad una consapevolezza che incatena la volontà umana.