GABRIELE FABBRO, ISOLAMENTO (DA COVID) E OSSESSIONE: IL GIOVANE REGISTA CI RACCONTA COME HA DATO VITA AL SUO FILM “THE GRAND BOLERO”
Il Covid-19, che lo si voglia o meno, ha cambiato il mondo, il nostro modo di vedere le cose, il nostro modo di vivere le esperienze. Era inevitabile che anche il cinema cominciasse a trarne ispirazione. Tra le varie produzioni uscite sul tema, da Songbird a Locked down, c’è anche una produzione tutta italiana che si sta facendo notare nei festival di tutto il mondo, non ultimo il Los Angeles Italia, raccogliendo premi, quali l’Open Jury Award al Linea d’Ombra Festival o miglior film all’Arpa International. Si tratta di The Grand Bolero, esordio nel lungometraggio di Gabriele Fabbro, fattosi le ossa su corti e videoclip. Il pregio dell’opera di Fabbro è quella di non fare del Covid il punto focale, piuttosto di renderlo il contesto, lo sfondo sul quale si svolge una storia di passione, ossessione e dramma umano.
La vicenda si svolge in un monastero dove la giovane muta Lucia (Ludovica Mancini) arriva per fare da assistente a Roxanne (Lidia Vitale), una spigolosa restauratrice d’organi a canne. È un incontro-scontro tra due generazioni e due personalità opposte; i modi bruschi e scostanti della donna si trasformano poco alla volta in un rapporto speciale e particolare. In esclusiva per Film4Life il regista Gabriele Fabbro ci parla della lavorazione del film.
Raccontaci prima un po’ di te, dei tuoi studi alla NY Film Academy di Los Angeles, del tuo background.
Ho sempre amato il cinema e ho sempre voluto studiare a fondo i film che mi emozionavano. Mi sono trasferito a Los Angeles nel 2015 per studiare alla New York Film Academy. Non pensavo di riuscire ad entrare in una scuola americana, il mio inglese era terribile e non avevo realizzato nulla di veramente interessante prima di iniziare i corsi alla NYFA. Con mio grande stupore e molta paura mi sono trasferito a Burbank per iniziare i corsi. Grazie agli insegnanti e ai compagni di classe che ho conosciuto sono riuscito ad apprendere tutte quelle tecniche che mi mancavano per dirigere un set professionale. Ma la NYFA mi ha soprattutto formato mentalmente. Sono riuscito ad aprirmi al cinema di altre culture e, forse a causa della nostalgia, ho cominciato anche a guardare al cinema italiano con più affetto, innamorandomi del lavoro dei nostri grandi maestri come De Sica, Fellini, Bertolucci e Sergio Leone.
Per la tua opera prima hai deciso di tornare in Italia, applicare nel tuo paese di origine quanto imparato in America. Cosa ha spinto questa decisione
Una delle cose che ho imparato scrivendo e dirigendo in questi anni è l’importanza delle proprie origini e delle proprie passioni. Tutti i registi che amo hanno avuto il coraggio di parlare delle proprie origini e delle loro ossessioni più morbose e intime. Nel mio piccolo sto cercando di fare proprio questo. Volevo partire dal luogo dove sono cresciuto e parlare della mia ossessione: gli organi a canne. Inoltre, ho una complicata relazione di odio e amore verso l’Italia, un paese ricco di bellezza, musica, storie e personaggi interessanti da valorizzare. Girare in Italia significa girare in location piene di Storia alle spalle. L’Italia è veramente uno dei migliori teatri di posa per il cinema. Un esempio: al contrario di quello che si dice qui a Los Angeles, per me la luce che c’è in Italia è di gran lunga superiore visivamente. Qui a Los Angeles il sole picchia sempre dall’alto, crea terribili ombre sui volti. In Italia, soprattutto in inverno, il sole è più basso, le nuvole che vanno e vengono creano meno ombre, evitando di avere sempre la stessa noiosa intensità di luce.
Da dove nasce l’idea del film e perché la scelta di integrare la pandemia e il Covid sullo sfondo della storia. Aldilà del momento che tutti abbiamo attraversato, la trama avrebbe potuto svolgersi anche in altri momenti storici.
L’idea del film, come detto, nasce dall’ossessione che avevo sin da piccolo per gli organi a canne. Mi sono innamorato di come il suono dell’organo facesse vibrare le immagini di film quali Per qualche dollaro in più, Koyaanisquatsi, 2001 Odissea nello spazio, Interstellar. Studiando lo strumento più profondamente e conoscendo l’organista Paolo Sanvito nel 2019 la passione dell’organo è diventata talmente forte che non potevo più tenerla dentro. Inizialmente, stavamo raccogliendo fondi per un’altra sceneggiatura che io e Ydalie Turk avevamo scritto. Purtroppo, non siamo riusciti ad ottenere il budget complessivo per realizzarlo. Quindi abbiamo deciso di scrivere un’altra sceneggiatura che potevamo realizzare con i soldi che avevamo trovato. Avevo da tempo scritto già alcune scene ispirate da pezzi musicali ad organo. Per esempio la scena finale del Bolero o quella con il Liebestod di Wagner. Ho dato queste idee a Ydalie e insieme abbiamo scritto The Grand Bolero. All’inizio il Covid non c’era. Un’opzione era quella di ambientare il film nel 1950, nel dopoguerra. Ma poi, io e Ydalie abbiamo pensato che il Covid potesse creare un altro livello di separazione tra le protagoniste e dare una scusa per “rinchiudere” i nostri quattro personaggi in questa chiesetta sperduta in Lombardia. La pandemia, inoltre, ha irrotto nelle vite di tutti portando questa assurda paura del “non potersi toccare”. Poiché siamo tutti rimasti così tanto ossessionati da questa malattia, pensavamo che era il momento giusto di scrivere questa storia.
In un film di questo tipo, dove c’è una passione che cresce, ma che per svariati motivi viene soppressa o comunque tenuta dentro sé, i silenzi sono più importanti delle parole. Tu hai deciso di moltiplicare per cento questa cosa rendendo l’oggetto del desiderio una donna muta. Parlaci di questa scelta.
Essendo un film sugli organi a canne e visto che i primi film muti del 1900 venivano accompagnati ad organo, ci sembrava opportuno trattare la sceneggiatura e lo stile del film come una di quelle pellicole mute, dove l’organo era l’unica “voce” per comunicare le emozioni. Grazie a questo film e al personaggio di Lucia, ho potuto esplorare le immense potenzialità espressive del cinema muto. Il Cinema Moderno purtroppo è concentrato sui dialoghi e sull’assenza di una narrazione musicale. Ci siamo dimenticati che il cinema muto ci insegna quanto sia potente il silenzio e il soffocare le emozioni… alla fine rappresenta esattamente il modo in cui tutti noi reagiamo nella vita quotidiana: cerchiamo sempre di nascondere chi siamo veramente dietro futili dialoghi. Il cinema muto invece va dritto al punto: non ci sono giri di parole, bisogna lasciare spazio alle emozioni.
Un tema fondamentale è il contrasto tra isolamento e ossessione. Due sentimenti opposti che alla fine entrano in collisione. Parlaci di come hai bilanciato questi due aspetti.
Penso che l’ossessione sia in realtà un effetto dell’isolamento… o almeno così l’abbiamo trattato nel film. Roxanne è un personaggio molto solo che ha deciso di isolarsi dagli altri e rinchiudersi nel suo mondo circondata solo dai suoi organi. L’isolarsi dalla comunità indebolisce la stabilità emotiva delle persone lasciando che le emozioni prendano il sopravvento, spesso offuscando la realtà. Quando una persona così sola come Roxanne si innamora, il sentimento si triplica; subentra la possessione; la gelosia e l’ossessione. L’isolamento ha reso Roxanne schiava delle sue emozioni. Non riesce più a controllarle. Lidia Vitale ha colto pienamente questo aspetto di Roxanne e ha lavorato duramente per farci sentire la sua solitudine e il suo forte desiderio di essere amata.
Parliamo del casting e della giovane Ludovica Mancini, che abbiamo trovato bravissima. Come l’hai scoperta?
Lidia e Ludovica sono state senza dubbio le più belle scoperte di questo film. Lidia Vitale l’avevo vista di sfuggita nel film “Tulipani” di Miei Van Diem. Ci siamo scritti su Instagram e le ho proposto di fare l’audizione per Roxanne. Appena abbiamo ricevuto il suo tape, non ci sono stati dubbi: era la nostra Roxanne! Lei poi ha suggerito a Ludovica di fare il provino per Lucia. Ludovica era il perfetto opposto di Roxanne e ci siamo follemente innamorati dello squisito contrasto visivo ed emotivo che creavano. Lidia e Ludovica sono due attrici incredibili e molto coraggiose. Non hanno mai avuto paura di mettere a disposizione le loro emozioni più intime per il bene del film. Sono due grandi persone, con un amore per il cinema inestimabile. Sono molto onorato di aver girato il mio primo film con loro.
In un film che si chiama Grand Bolero non si può non parlare della colonna sonora, i commenti musicali sono quasi un personaggio aggiunto, parlaci di come hai integrato le musiche per marcare i passaggi della storia.
Amo la musica classica, quindi il Grand Bolero è stato una vera e propria vetrina per parlare di questa mia profonda ossessione. Cerco sempre di raccontare le storie, le emozioni e i personaggi che la musica mi comunica. In tutti i lavori che sto facendo metto a punto la colonna sonora del film prima di iniziare a scrivere. Come dicevo, molte delle scene del film sono state scritte subito dopo aver ascoltato i temi musicali. Sono contento che associ la musica ad un personaggio. Durante la costruzione dei pezzi musicali ci siamo soffermati molto su quello che l’organo voleva dire alle protagoniste. Prendiamo per esempio la scena dove Lucia suona l’organo del 1500 e Roxanne gira le pagine dello spartito. Mentre vediamo Roxanne che si innamora sempre di più di Lucia, l’organo diventa più sinistro, accelera il ritmo, come se stesse gridando disperatamente a Roxanne di non innamorarsi. La narrazione musicale per me è il cuore di un film.